Speak No Evil - Non parlare con gli sconosciuti, la recensione dell'incubo con James McAvoy
James Watkins dirige un thriller horror serrato, dove una famiglia viene accolta dai modi politicamente scorretti di una coppia che si gode la vita. Almeno in apparenza. La nostra recensione del film con James McAvoy prodotto dalla Blumhouse.
Coniugi in crisi non troppo esplicita, Louise & Ben Dalton (Mackenzie Davis e Scoot McNairy) sono in vacanza con la loro bambina Agnes, quando s'imbattono in una famiglia più disinvolta: lo scatenato Paddy (James McAvoy), la giovane compagna Ciara (Aisling Franciosi) e il loro bambino Ant, afasico per un problema congenito. Accetteranno non troppo convinti un invito nella casa isolata di Paddy: è solo politicamente scorretto e disinibito, oppure è qualcosa di peggio?
Chiunque abbia visto il danese Speak No Evil (2022) di Christian Tafdrup non l'avrà dimenticato: assai disturbante incubo, costruiva un crescendo disperato sulle fondamenta di una crisi sociale che i genitori della bimba a stento riuscivano a nascondere. Il loro modo di rapportarsi all'esistenza, in difesa e colpevole, apriva la porta a una follia che in teoria non poteva essere tollerata, ma che lo era per un'umiltà debole, per una sconfitta esistenziale. Quando lo stesso soggetto si trasferisce nelle mani del guru dell'horror americano a basso costo, Jason Blum con la sua Blumhouse, diventa con Speak No Evil - Non parlare con gli sconosciuti qualcosa di sensibilmente diverso, pur mantenendone la stessa sinossi.
Si passa infatti dall'apologo danese, in grado di piantare semi di inquietudine dall'interpretazione ambigua, a un intrattenimento di genere sperticato, molto ben confezionato dal regista James Watkins, autore anche della nuova sceneggiatura. È interessante notare come avvenga la mutazione culturale ed estetica della stessa idea. In primis l'uso di James McAvoy dopo Split, la caratterizzazione instabile e sopra le righe che gli viene richiesta sin da subito, annullano ogni residuo di quell'ambiguità in lui o nel personaggio della sua compagna Ciara, ringiovanita per un potenziamento grottesco del soggetto originale (non vi sveliamo il dettaglio per rischio spoiler). Certo, il film di Tafdrup non faceva molto per nascondere la natura psicopatica dell'esuberante "amico", ma la sua forza non era lì, era nel metterci di panni di vittime che forse - si suggeriva - meritavano di essere tali. La premessa danese tuttavia minava il rispetto reverenziale che la cultura americana media ha per l'istituzione della famiglia, ragion per cui la "crisi" dei Dalton viene riletta come transitoria, non sistemica: nel remake vengono aggiunti problemi economici, e marito e moglie hanno pure difficoltà a fare sesso per lo spettro di un tradimento. Non è il loro modello a essere messo in dubbio (come avveniva nel film originale), quanto la loro applicazione deficitaria di quel modello.
La minaccia quindi nel remake è decisamente più fuori che dentro di noi, e ne consegue la modifica radicale del finale, a questo punto inevitabile per le premesse "filosofiche" diverse che vi abbiamo descritto... e non vi togliamo il gusto di viverla come l'otto volante che il nuovo Speak No Evil è. Perché, se la storia perde il suo tono più provocatorio, non perde in fin dei conti quella del racconto più costruttivo, sorta di versione su scala familiare dello scontro tra l'automobilista pavido e il camionista fuori controllo del Duel spielberghiano. Louise e Ben hanno fino a questo momento evitato di affrontare i problemi che riguardano loro e Agnes, cercando di cavarsela a parole o defilandosi, proprio come cercava di fare Denis Weaver in quel capolavoro di cinquant'anni or sono: ma questa volta non si può, bisogna fortificarsi per la minaccia esterna... e affrontare la sfida visceralmente, per sopravvivere come sanno fare gli animali.
Speak No Evil è una versione del film originale passata nel filtro alla Scappa - Get Out, perciò non si risparmia gli artifici più spudorati della suspense e di un certo sadico umorismo nero, per portare a casa un risultato più esagerato, granguignolesco e in un certo senso più classicamente epico ed eroico. Però bisogna ammettere che diverte il giusto per tutta la sua durata, a patto che si lascino a casa le pretese di plausibilità (ancor più che nell'originale) e si accetti un viaggio all'inferno da luna park, con qualche balzo sulla sedia, tifo per i personaggi sullo schermo e liberatorie imbarazzate risate davanti ai momenti più efferati.
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"