Spaceman: la recensione del film con Adam Sandler presentato al Festival di Berlino
Una storia d'amore mascherata da space opera (lirica), con un Adam Sandler imploso come non mai. Arriverà in streaming su Netflix dal 1° marzo. Ecco la recensione di Spaceman di Federico Gironi.
Certo, con quel titolo, e con la storia che racconta (una storia di distanza, assenza, solitudine), Spaceman potrebbe far venire in mente David Bowie, il Bowie di Space Oddity, ma la reference, come dicono quelli bravi, in questo caso, nel caso del film diretto dal Johan Renk di Chernobyl, se c’è è solo vagamente tematica.
Perché dei ritmi e dei modi della musica di Bowie, qui, c’è ben poco.
Che film strano, Spaceman, che casomai, sempre per rimanere in tema di musica, tira in ballo la Rusalka di Antonín Dvořák. E che, se proprio di space opera vogliamo parlare, è opera lirica, sicuramente: per tempi, toni, ambizioni.
Ecco. È ambizioso Spaceman. Nella storia che racconta, nel come la racconta, nello stile visivo. E però, come Rusalka, in fin dei conti Spaceman non è altro che una storia d’amore.
Adam Sandler, immoto e imploso come non mai, e bravo come sa (ovvero gigantesco), è Jakub Procházka, cosmonauta della Repubblica Ceca, in missione nello spazio per arrivare - prima dei rivali sudcoreani - a esplorare una misteriosa nube purpurea (chissà se ogni riferimento a Matthew Phipps Shiel è del tutto casuale o meno) che si rivelerà composta dalle particelle primordiali dell’universo.
A guidare Jakub è - appunto - l’ambizione, ma per lui lo spazio è anche una fuga. Da sé stesso, dal matrimonio con Lenka (Carey Mulligan), dal figlio che aspettano. Scappa per paura Jakub. Per egoismo. Per egoismo, per l’egoismo che ha sempre usato come difesa, sta rischiando di perdere Lenka.
Forse l’ha già perduta.
Nel film, una bambina chiama Jakub l’uomo più solo del mondo, pensando a lui lassù, nello spazio più profondo, impegnato in una missione solitaria. Jakub si ribella a quella definizione, ma sa essere vera. Jakub è solo con sé stesso da sempre.
Non è solo, però, sulla sua astronave, perché a fargli compagnia, a esplorare i suoi pensieri, a metterlo di fronte ai suoi limiti, ai suoi desideri, ai suoi rimpianti, alle sue colpe e ai suoi sentimenti, senza mai la possibilità di barare, arriva una creatura aliena. Ha l’aspetto di un ragno, la voce di Paul Dano, i modi di un santone, o di un terapeuta, o di qualcuno che ha viaggiato nello spazio e nel tempo per millenni, e sa come deve andare l’universo.
Sa tante cose, ma non sa gli umani, è incuriosito dal dolore e dalla solitudine di Jakub, dalle sue contraddizioni soprattutto, e finirà per curarlo.
Vasto e silenzioso come lo spazio profondo, Spaceman si pone l’obiettivo non da poco di mettere in parallelo, e a confronto, il vuoto del cosmo con quello che Jakub si porta dentro.
Di raccontare le difficoltà dell’amore, e della vita, attraverso allucinazioni galattiche e illuminazioni cosmogoniche.
Renk mette sullo schermo un mondo dal fascino lo-fi, post-sovietico, nel quale si alternano gli spazi angusti della nave spaziale su cui viaggia Jakub, quelli sterminati e complessi - deformati dalla prospettiva - dei suoi ricordi, quelli in cui si muove Lenka sulla Terra.
Quel che vediamo sullo schermo è quasi dolcemente lisergico, ma più che di trip, possiamo forse parlare di sogno. Un sogno che assomiglia a un incubo. L’incubo di un uomo lasciato dalla donna che ama ma che non ha saputo amare, costretto a fare i conti con la solitudine, il dolore, la colpa, le responsabilità delle sue omissioni. Il ragno alieno riporta Jakub alla realtà, gli regala la possibilità di espiare le sue colpe, trasformare l’incubo di nuovo in sogno. Il sogno di una riconciliazione.
Ci sono momenti visivamente molto forti, in Spaceman. Certe sue deformazioni prospettiche, certi suoi cromatismi, una certa sua strana magia fa venire in mente le bolle di sapone: evanescenti, fragili, volatili, ma capaci di una superficie affascinante e di una fascinazione che non è (mai, affatto) solo infantile.
Dentro quelle bolle si nasconde tutta l'emotività del film: un'emotività particolare, compressa, e per questo estrema senza sembrarlo. Anzi, sembrando freddo e forse perfino incerto. Spaceman vuole lavorare sui sentimenti in maniera lenta e costante, battendo quasi impercettibilmente su corde profonde e, tutto sommato mai banali. Lì dove forse non arriva Renck, arriva l'interpretazione di un Sander che prosegue imperterrito, da film a film, un suo disegno ideale, perfino autoriale, che ha una coerenza evidente.
Una coerenza basata su sentimenti, sensazioni, introversioni e estroflessioni che sono gli stessi e le stesse di questo film, e della natura umana.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival