Soap Opera - la recensione della commedia con Fabio De Luigi e Diego Abatantuono
Una storia corale con lo stile sofisticato di Alessandro Genovesi.
Qualcosa si muove nel panorama standardizzato e prevedibile delle commedie italiane. Il benemerito è un autore che più con un film da lui solo scritto, Happy Family, che con le sue due regie, La peggior settimana della mia vita e Il peggior Natale della mia vita, aveva cercato di proporre anche al cinema uno stile originale che aveva caratterizzato le sue esperienze a teatro. Una lunga premessa per presentare Alessandro Genovesi che con Soap Opera firma la sua prima vera opera personale come regista cinematografico.
Più che adattare la sua visione stralunata e da “realismo magico” al mondo della commedia italiana, ha preferito abbandonarlo del tutto quel mondo solo nelle intenzioni realistico, ma ben poco credibile, in cui abita il nostro cinema comico, per creare da capo tutto un altro microcosmo, alla maniera di Wes Anderson, che finisce per risultare più reale e credibile. Un mondo che inizia e finisce con questo film e che prendendo in prestito un genere paradossale come la soap opera mescola la commedia al romantico con il tessuto comune del melodramma. In Soap Opera accade di tutto e lo si accetta, proprio come nella soap opera. Si concentrano fatti e emozioni di una vita intera, perché in fondo è il film stesso ad essere la vita intera dei personaggi che abitano i quattro appartamenti del palazzo in cui Genovesi ambienta il film.
Nel microcosmo ricostruito interamente in studio a Cinecittà, sulle ceneri del set di Gangs of New York, la compagnia di giro degli interpreti del film, in buona parte facenti parte della scuderia fedele del regista, si trova in bella sintonia nel rappresentare nove tipi surreali, ma in fondo comuni.
Ci sono dinamiche più riuscite, come gli ottimi Ale & Franz sospesi fra esilaranti silenzi e malinconici non detti, e altre da pochade poco efficace, come la presunta crisi d’identità sessuale del pur bravo Ricky Memphis.
Nove attori, nove archetipi umani, ma anche nove stili di recitazione molto diversi da amalgamare. Non semplice, poi, ma spesso riuscita, la scommessa di renderli più che semplici macchiette e di conciliare i tempi serrati della battuta a segno con quelli più morbidi, di sguardi, del melodramma.
Certo di fondo il film è una commedia e i nodi devono per forza essere sciolti a colpi di conciliazioni e garbo, ma Abatantuono, De Luigi e Memphis nobilitano la buona sceneggiatura di Genovesi e visivamente siamo di fronte a un film che osa nuove strade, che rompe – letteralmente - le asfissianti pareti domestiche di famiglie nevrotiche e già viste, e osa.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito