Skyfall - la recensione del 23esimo film di James Bond
Azione, ironia, introspezione e seduzione si alternano in un film nel quale il Bond di Mendes e Craig chiude un cerchio trovando nel suo passato la forza per vincere il futuro.

Il nuovo inizio di Casinò
Royale ha già sei anni. James Bond, al
cinema, ne ha compiuti cinquanta tondi tondi. E in un mondo che cambia, cresce e si
evolve (?) a velocità esponenziali, era in qualche modo necessario che l’agente
segreto di Sua Maestà Britannica dovesse cambiare nuovamente pelle, per rimanere
sé stesso. Dovesse affogare dentro il suo passato per riemergere alle soglie del
futuro.
Che allora la sequenza di apertura di 007 Skyfall sembri uscita di
peso da un Bond-movie degli anni Settanta con Roger Moore non sorprende; né che
quello stesso incipit turco (che precede dei brutti titoli di testa con una brutta
canzone di Adele) vada ancor più indietro quando, sul tetto di un
treno, si va fino ai tempi di Sean Connery. Perché è lì che Bond è
destinato a cadere dentro le paludi di sé stesso, e a ricominciare il viaggio verso il
presente e quel che verrà.
Nelle mani di un Sam Mendes
fortunatamente molto più vicino (e non solo cronologicamente) a un film come
American Life che non ad altri
suoi titoli più blasonati, ovvero in grado di piegare la sua autorialità a un contesto
che ne contenga le sporcature e le esagerazioni, il 23esimo film del canone ufficiale di
James Bond racconta di una ricerca identitaria, di una
resurrezione che scaturisca dal produttivo cortocircuito tra quel che si è (stati) e quel
che non si (ri)conosce più.
Ecco che allora 007 Skyfall è una sorta di veloce
bignami di cinquant’anni di storia bondiana, nel quale lo 007 ruvido e problematico di
Daniel Craig si perde e si ritrova nel confronto
con gli stili e i modi di coloro che l’hanno preceduto, identificandosi per contrasto e
per analogia, anche attraverso l’uso di un’ironia quasi iconoclasta, e proprio per
questo rispettosissima. Nel corso di questa carrellata, Mendes
alterna stili e modi, senza timore di cadere nel camp,
prendendosi grossi rischi, abbracciando un po’ goffamente azione e sensualità, con
più agio introspezione e sarcasmo, ma nel complesso appare più che capace di
soddisfare lo spettatore smaliziato e attento ai dettagli.
Quando però, reduce dal confronto col passato, il suo Bond
si ritrova frastornato, invecchiato e stanco, ecco che 007
Skyfall si trasforma in qualcosa di completamente diverso, e di
nuovo. Per sconfiggere un cattivo, quello di un coraggioso Javier
Bardem, che come ogni Joker che si rispetti è il suo lato
oscuro, la sua nemesi speculare, James Bond è allora obbligato
ad aggrapparsi tenacemente a pochi e indispensabili punti fermi e a spingersi,
letteralmente, nei luoghi delle sue personali radici. Proprio come i protagonisti di
American Life, deve ripartire da dove tutto, perfino
lui, era iniziato, per affrontare il futuro con la libertà di coloro che sanno essere
coerenti con sé stessi e la propria natura.
Tra un inseguimento e un’esplosione, un varano di Komodo e un nuovo
Q, tra un assedio western e un Martini, tra una seduzione (non
solo femminile…) e un’Aston Martin DB5, Mendes
e Craig, e il loro Bond, hanno capito prima e meglio di
tutti quale sia l’antidoto ai rottamatori a tutti i costi, alle sfide di un presente la cui
ansia di progresso si è tramutata nella percezione utopistica e sfalzata di una realtà
irreale: accettare le proprie contraddizioni, affrontarle, non identificare il rispetto del
passato con un chiuso conservatorismo.
Perché solo chiudendo un cerchio (vi) si può comprendere il presente, il nuovo e
il futuro.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival