Siberia: recensione del film di Abel Ferrara in concorso alla Berlinale del 2020

25 febbraio 2020
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Un personalissimo e lucido trip del regista americano, racconto del desiderio di espiazione di un uomo alle prese con un bilancio esistenziale.

Siberia: recensione del film di Abel Ferrara in concorso alla Berlinale del 2020

Siberia è un trip. In tutti i sensi.
È un viaggio: il viaggio del Clint di Willem Dafoe, che parte dalla baracca isolata tra la neve i monti in cui si è rifugiato per sfuggire a sé stesso e alla sua vita, e prende il via sprofondando letteralmente nelle grotte del suo inconscio, attraversando luoghi e facendo incontri con la stessa irrazionale logicità di un sogno. Indotto da sostanze o meno.
Eppure, il trip di Siberia è lucidissimo. Perché Abel Ferrara - che da tempo si è allontanato dalle sue dipendenze, come ha raccontato anche nel suo ultimo film - ha molto ben chiaro quel che vuole dire e come lo vuole dire. Quale sia e cosa simboleggi il viaggio che fa intraprendere al personaggio di Dafoe, che ancora una volta, dopo appunto il precedente Tommaso, sembra essere nuovamente un suo alter ego.

Ai ghiacci e alle caverne si alternano i deserti del Nord Africa, prati verdi e fioriti, strutture del brutalismo socialista, cottage che all'interno sono appartamenti newyorchesi, attraversati da Clint con la sua muta di cani da slitta.
In questi luoghi, Clint incontra strani personaggi, vecchi eschimesi, donne nude, forse streghe, sicuramente stregoni che praticano varie forme di magia. Soprattutto, incontra suo padre, le donne della sua vita, la madre di suo figlio che diventa sua madre, il figlio. Mentre risuonano canzoni black metal o "Runaway" di Del Shannon.

"A partire dal mio primo film mi sono immerso sempre più nell'oscurità," scrive Ferrara nelle sue note di regia.
In questo caso le oscurità - che sono quelle del passato e della coscienza di un personaggio in cerca di redenzione, alle prese con un percorso di confronto coi propri peccati (il sesso, la violenza, il tradimento di persone e aspettative) e di espiazione che è evidentemente quello dello stesso regista - sono raccontate da Ferrara con un’eleganza formale e fotografica ruvida e materica, dove luci e ombre si fanno quasi palpabili, e sempre andando alla ricerca di una luce che è quella di un nuovo giorno, e di una nuova pagina della vita.
E d'altronde, esaminare gli errori passati, fare ammenda per questi errori e imparare a vivere una nuova vita sono tre dei dodici passi su cui si basa il percorso degli Alcolisti Anonimi, cui il regista, ancora in Tommaso, raccontava di aver aderito.

Sarà per la presenza di Willem Dafoe, o per un pesce parlante che potrebbe essere messo in relazione con la volpe di Antichrist, o per alcune cose che ricordano vagamente il viaggio agli inferi di La casa di Jack, ma qualcosa in Siberia mi ha ricordato alcune atmosfere dell'ultimo Lars Von Trier.
Fatte salve differenze ovvie, formali e di contenuto, la sincerità e la voglia di mettersi a nudo nei propri tormenti, nelle contraddizioni e nelle speranze, pare comune sia al newyorchese che al danese. Come la forza viscerale e misteriosa del loro cinema, che nasce liberando la propria creatività da ogni forma di egocentrismo e di censura razionale, e portando il loro percorso cinematografico ed esistenziale a intrecciarsi in maniera complessa e integrata.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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