Showing Up: la recensione del film di Kelly Reichardt in concorso al Festival di Cannes 2022

27 maggio 2022
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Michelle Williams torna a recitare in un film della regina dell'indie contemporaneo americano, Kelly Reichardt, ormai sempre più amata anche al di fuori degli USA. In Showing Up conferma la sua capacità di eccellere del racconto della quotidianità. La recensione di Mauro Donzelli.

Showing Up: la recensione del film di Kelly Reichardt in concorso al Festival di Cannes 2022

Cosa vuol dire fare arte? Senza didascalimi o dannatismi, ma con la piana quotidianità della vita reale che si insinua nel tentativo di costruire le sculture per una mostra che potrebbe cambiare la carriera di una donna. Showing Up è un oggetto particolare, che ripropone uno stile piano caratteristico di Kelly Reichardt, ormai la regina indiscussa dell’indie americano di qualità. La particolarità è il fatto che declina senza cliché un sottogenere che ha delle sue regole e di cui si disinteressa in maniera liberatoria, costruendo oltretutto la figura di una protagonista scontrosa, respingente e sempre con un rodimento cristallino. Non un ruolo in cui immagineremmo la solare Michelle Williams, che invece è perfetta in questi panni ingrigiti, alla quarta collaborazione con la Reichardt.

L’ambientazione è in una Portland contemporanea, come altri suoi film. Una realtà molto vivace artisticamente in questi anni, location titipica del cinema di Gus Van Sant, popolata da un gruppo di artisti che sembrano usciti dalla California di alcuni decenni fa. Un’eccentricità che può ricordare il processo creativo sospeso nella sua routine di scoperta quotidiana raccontato da Jane Campion in Un angelo alla mia tavola, che raccontava la scrittrice Janet Frame.

In Showing Up viene esaminata una delle più fisiche, tattili fra le arti: la scultura. Un processo che prevede un lungo percorso di cesellatura e una cottura finale, l’intervento quindi di qualcun altro per concludere l’opera. Qualcosa che mal digerisce Lizzie Carr, ai limiti della sociopatia, che mal sopporta la vicinanza con la padrona di casa, artista di maggior successo, che la tiene da due settimane senza acqua calda e con cui si inizia a declinare il tono ironico più riuscito di questo film. Intorno a lei una scuola d’arte particolare, l’Oregon College of Art and Craft, una madre e un padre che non si possono più vedere e sono divorziati da tempo, oltre a un fratello che non ci sta con la testa, e scava buche in giardino come suo contributo all’arte.

Il garage studio di Lizzie non è la bolla visionaria in cui ci si immagina avulsa dalla realtà circostante una scultrice che perfeziona il suo talento. Al contrario è disturbata continuamente dagli invitati della vicina, dalla doccia che non si può fare, e da un gatto che pensa bene di prendersela con un piccione che farà da assordante distrazione continua per gli ultimi giorni di lavoro di Lizzie. È insospettabilmente divertente, infatti, questo racconto, oltre che dissacrante nel suo togliere dal piedistallo dei luoghi comununi l’artista. Emergono però le paure dell’insuccesso, le fragilità della competizione e la sindrome dell’impostora, che la portano a concentrerai nel gran giorno dell’inaugurazione della mostra più sulla quantità di (discutibile) formaggio che sulla riuscita della sua affermazione nel mondo dell’arte.

Un universo che sembra slegato dalla contemporaneità, popolato da rimasugli di controcuiltura emigrati a nord da Los Angeles e San Francisco, che ha il dono di non giudicare nessuno, evita la trappola del cinismo per lasciar trasparire una dolce malinconia di fondo. Una storia di banale ordinarietà che cattura con la tensione di un thriller, uno spaccato originale lungo i territori impervi del processo creativo. Un gioiello di equilibrio che conferma la statura della Reichardt, fra le autrici americane di maggior spessore attualmente in attività.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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