Selma - La strada per la libertà - la recensione del film di Ava DuVernay

28 gennaio 2015
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Il film candidato all'Oscar racconta le marce guidate da Martin Luther King per il diritto di voto degli afroamericani.

Selma - La strada per la libertà - la recensione del film di Ava DuVernay

Il primo film incentrato sulla figura del reverendo Martin Luther King è, paradossalmente - come già 12 anni schiavo - più inglese che americano: dalla Gran Bretagna provengono buona parte della produzione, il protagonista David Oyelowo, lo sceneggiatore Paul Webb e due attori che interpretano storici personaggi americani, Tom Wilkinson (il presidente Lyndon B. Johnson) e Tim Roth (il governatore dell'Alabama, Wallace). Certo, la regista è americana, così come il resto del cast e la potentissima attrice/anchorwoman/produttrice e miliardaria Oprah Winfrey, che ha molto per cui essere grata ed è sempre presente in questo genere di operazioni. Ma è come se, da soli, gli americani (bianchi) proprio non ce la facessero a raccontare gli aspetti meno eroici della loro storia o non volessero investire nella perpetuazione della loro memoria, quando questa è scomoda e ancora irrisolta. 

Il film racconta le tre storiche marce guidate nel 1965 dal reverendo King e altri religiosi esponenti del movimento non violento, nel tentativo di arrivare da Selma alla capitale dell’Alabama, Montgomery, per rivendicare il diritto di voto con la registrazione nelle liste elettorali, da cui di fatto se non di diritto i neri erano esclusi negli Stati ancora razzisti e sgregazionisti del Sud, che rispondevano a ogni tentativo di rivendicarlo con omicidi, attentati e repressioni violente. Le marce furono fatte nel tentativo di forzare la mano al presidente Johnson, che aveva emanato l’anno prima il Civil Rights Act ma che mal si muoveva nel clima esacerbato del periodo, che gli richiedeva di disperdere le sue energie su più fronti. King sapeva però che non si poteva aspettare oltre: contraltare cristiano alla risposta violenta propugnata da Malcolm X e dal suo movimento, era però tutt’altro che disposto a cedere o ad aspettare diplomaticamente tempi migliori. Fu così che, mettendo a rischio la sua vita, decise pur tra dubbi e discussioni con gli altri aderenti alla protesta, di andare avanti con la marcia, vissuta dai politici, dalla gente e dalla polizia locale come una intollerabile provocazione. Quando domenica 7 marzo 1965 i manifestanti arrivarono alla fine dell’Edmund Pettus Bridge, la polizia, schierata in assetto da battaglia, senza alcuna provocazione caricò violentemente uomini, donne, vecchi e bambini, lasciando al suolo un morto e oltre 50 feriti. La “Bloody Sunday” di Selma fu portata dalla tv in tutte le case americane e l’indignazione che salì nel paese fece sì che alla marcia successiva ci fossero persone di ogni religione e colore, ma stavolta di fronte all’apparente remissività delle forze dell’ordine fu King a rinunciare e a tornare indietro. Fino a che Johnson si decise a votare il Voting Right Act federale e i manifestanti guidati dal reverendo arrivarono finalmente a Montgomery per festeggiare la vittoria e rendere omaggio ai caduti.

Selma mostra tutto questo e altro: l'influenza del direttore dell’FBI E. J. Hoover, l’offerta di aiuto di Malcolm X (assassinato di lì a poco nel febbraio 1965), i contrasti interni al movimento, i drammi delle persone coinvolte, la violenza bruta sugli inermi, la grande forza e coraggio di uomini disposti ad andare anche incontro alla morte pur di affermare i propri inalienabili diritti. La sceneggiatura ci presenta il reverendo King come un leader coscienzioso, logorato dalla lotta e lacerato sulle scelte da compiere, ma determinato e presago del suo sacrificio futuro. Ci mostra anche le sue umane debolezze e le sue imperfezioni, entrando nel merito del rapporto con l’amata (ma tradita) moglie Coretta. David Oyelowo, nella vita fervente cristiano e convinto di essere predestinato a interpretare Martin Luther King, ne offre un ritratto mimetico, più umano che mitico.

Quello che manca a Selma per essere un capolavoro del cinema civile è a parer nostro la capacità di mantenere inalterato il pathos: il ritmo e l’urgenza si disperdono tra le pagine del copione verboso e teatrale di Webb, alternando momenti coinvolgenti di grande forza cinematografica al tentativo (e alla difficoltà oggettiva) di riassumere un dibattito politico e storico così complesso in un film di due ore.

Selma copre un importante vuoto e ha tutti i tasselli al posto giusto, a partire dal cast, dove non manca nemmeno un cammeo dell’attore più liberal di Hollywood, Martin Sheen. E' un'opera istruttiva con un sicuro valore didattico, da proporre in un ideale double bill storico assieme a Lincoln (non a caso cosceneggiato da Webb). E se tutto questo non è un motivo sufficiente per gridare allo scandalo o alla discriminazione per l’assenza di Ava DuVernay tra i registi candidati all’Oscar, ci dispiace comunque non trovare David Oyelowo nella cinquina dei migliori attori.

 



  • Saggista traduttrice e critico cinematografico
  • Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità
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