Rush - la recensione del film di Ron Howard su James Hunt e Niki Lauda
Dal Grand Prix di John Frankenheimer del 1966 al Driven di Renny Harlin del 2001, il racconto cinematografico delle competizioni automobilistiche sulle monoposto (Formula 1 o Indy che fosse) non ha mai centrato in pieno il suo obiettivo.
Dal Grand Prix di John Frankenheimer del 1966 al Driven di Renny Harlin del 2001, il racconto cinematografico delle competizioni automobilistiche sulle monoposto (Formula 1 o Indy che fosse) non ha mai centrato in pieno il suo obiettivo.
Forse anche per questo Ron Howard ha fatto tesoro di tipologie altre di film per girare Rush, guardando tanto al bel documentario su Ayrton Senna di Asif Kapadia quando al Frost/Nixon che aveva segnato la sua prima collaborazione con lo sceneggiatore Peter Morgan.
Il risultato è quello di un blockbuster volutamente anacronistico, dove le pur buone sequenze di corsa sono secondarie, come importanza e minutaggio, rispetto al racconto di una rivalità tra due piloti in lotta fra loro ma prima di tutto con loro stessi.
Nella penna dello sceneggiatore inglese, e sotto lo sguardo di Ron Howard, James Hunt e Niki Lauda non sono infatti solo due campioni protagonisti di una grande rivalità sportiva, ma – come spesso accade in questi casi – diventano due diversi atteggiamenti umani nei confronti della vita, due diverse facce del maschile, incomplete e mancanti se prese singolarmente e compiute solo nel riconoscimento dell’altro in quanto stimolo e completamento.
Di nuovo, sotto il sole di Rush, c’è quindi ben poco. Ma non è il nuovo che interessa ad Howard, regista di un cinema d’impronta classica con la malizia necessaria a non sembrare mai antiquato, capace di una solidità artigianale magari grossolana ma priva di crepe e giunture visibili, e sempre verniciata a puntino.
Il segreto, si sa, è circondarsi delle persone giuste.
Con l’aiuto di Anthony Dod Mantle, Howard riveste Rush di una patina vintage modaiola e funzionale, ricrea con efficacia sufficientemente adrenalinica i duelli in pista e con spensieratezza o tensione quanto la vita nel paddock e nei box. Assieme a Morgan, a Chris Hemsworth e Daniel Bruehl tratteggia due personaggi tanto fedeli agli originali quanto capaci di assumere una valenza cinematografica ed eroica.
Perché, è inutile negarlo, del cinema classico che evidentemente tanto ama, Howard attinge a piene mani soprattutto per quello che riguarda uno spirito retorico e magniloquente, voglioso di raccontare di personaggi più grandi della vita tanto per i loro pregi quanto per i loro difetti. Hunt e Lauda, visti da Howard, sono due uomini ruvidi e speciali, dalle parabole speculari e complementari, legati tra loro da un sentimento pudico e “maschio”, sincero e malinconico.
Ma se, oggi, l’uso della retorica (di certa retorica) può e deve essere il benvenuto, come dimostra una serie come The Newsroom, quello che a Rush manca è la capacità di agire e risuonare dal punto di vista etico e morale, di superare lo stereotipo e il modello, di vibrare con emozioni profonde e non solo attraverso stimolazioni sensoriali e psicologiche superficiali.
Perché Howard non è Sorkin.
Perché Howard, si capisce, vede sé stesso nell’etica e nell’estetica ostinate, squadrate e logiche di Lauda, e non riesce mai a far proprie la passionalità sanguigna e la sregolatezza imprevedibile e artistoide di Hunt.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival