Rumore bianco: la recensione del film di Noah Baumbach che ha aperto Venezia 2022
Il Festival di Venezia 2022 si è aperto con l'adattamento di Rumore bianco diretto da Noah Baumbach con Adam Driver e Greta Gerwig. Una produzione Netflix molto attesa, una nuova storia sulla famiglia da parte del regista americano. La recensione di Mauro Donzelli.
Non sarà stato il tanto messianicamente atteso Grande Romanzo Americano, ma Rumore bianco di Don DeLillo ha rappresentato una tappa del percorso di comprensione delle tare esistenziali americane, individuali e proiettate nella società reaganiana di metà anni Ottanta. Una definitiva sepoltura del sogno americano che diventa incubo, come quelli che vive il protagonista dell’adattamento di Noah Baumbach, lettore appassionato del libro fin dalla pubblicazione. Si confronta con una figura mortifera, sorta di versione indie americana della triste mietitrice. È infatti la paura della morte a permeare questa storia, il film che ci accomuna tutti senza regalare un lieto fine spensierato di sapore Hollywoodiano. Quel ronzio di fondo che ossessione il protagonista, quel rumore bianco appunto, il più esistenziale che (non) esiste, se non come “idealizzazione teorica”.
Siamo in un college immaginario, in cui Jack Gladney (Adam Driver) è un professore diventato noto come uno dei maggiori studiosi della figura di Hitler. La sua è una famiglia numerosa e allargata, con figli suoi e della sua attuale moglie, non la prima, Babette (Greta Gerwig). Una fuoriuscita di qualche non ben precisata sostanza chimica a poca distanza da casa provoca un’improvvisa evacuazione della cittadina, ponendo di fronte la coppia a una riflessione sulla precarietà dell’esistenza. Il tutto in chiave spesso satirica, sempre ironica, con un’alternanza di generi presente nel materiale narrativo di partenza che ha intrigato Noah Baumbach fin dalla prima lettura, quasi quarant’anni fa. Dopo la pausa (mirabile) di Storia di un matrimonio, il regista newyorkese torna a frequentare territori caustici e frammentati, quelli indie nell’anima e radical chic che l’hanno reso autore di culto - così come Greta Gerwig - per diverse generazioni.
“Volevo fare un film che fosse tanto pazzo quanto mi sembra sia il mondo di oggi”. Così il regista, che lodevolmente cerca di declinare con senso dell’umorismo e del paradosso una tematica così esistenziale, anche se nella staffetta frenetica di toni si perde un po’ l’immedesimazione emotiva, quel senso di ansia costante, di angoscia di chi si sente affacciato a un baratro, che dovrebbe essere al centro di questa storia. Manca l’introspezione, la capacità di allineare le nostre paure all’assordante rumore bianco della morte, a una vita come attesa sospesa di cui già conosciamo la fine, laddove invece la proiezione all’esterno di questa variopinta famiglia regala momenti divertenti e riusciti, sostenuti dalla consueta scrittura attenta. I viaggi più noir, che costellano soprattutto una parte conclusiva quasi coeniana, sono anche quelli più spiazzanti, ma deboli, esibizione di talento per l’assurdo che rimangono fini a sé stessi.
Un'esibizione di talento che lascia intrigati qualche volta e coinvolti in pieno solo sporadicamente. Sono altri i lavori in cui Baumbach è riuscito a raccontare con profondità, partendo da una superficie scanzonata, le idiosincrasie della famiglia americana. Le catastrofi e un tono sempre in esibire smorzano la portata elegante giocata sui mezzi toni in cui è maestro. La vita è una porta girevole, come il cinema che è un affluente emozionale irrinunciabile. Rumore bianco rappresenta un capitolo riuscito a fasi alterne, in attesa del prossimo giro di giostra.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito