Roma, santa e dannata, recensione del documentario di Roberto D'Agostino e Marco Giusti
Attraverso il racconto del lato notturno, trasgressivo e oscuro della Capitale, Dago e Giusti ne tratteggiano un carattere eterno, immutabile, noto e invincibile. Presentato alla Festa del Cinema, il film sarà in sala il 6-7-8 novembre distribuito da Altre Storie. Recensione di Federico Gironi.
“Amare Roma è facile. Capire Roma non è soltanto impossibile, è inutile”.
Lo dice Roberto D’Agostino, Dago per gli amici, il Flaiano che questi tempi che viviamo si possono permettere. Lo dice all’inizio di Roma, santa e dannata, il “viaggio nella notte romana” che lo vede nei panni di Virgilio per il Dante Marco Giusti (a dirlo, è sempre Dago).
Un documentario da loro scritto e ideato, diretto e fotografato da Daniele Ciprì, con Paolo Sorrentino (che avrebbe dovuto dirigerlo in forma di miniserie) a fare da produttore creativo.
E infatti, il viaggio di Dago e Giusti parte da dove finiva La grande bellezza, dal Tevere, e della Grande bellezza è una sorta di curiosa appendice (“il rovescio della vestaglia”, sempre Dago).
Dal titolo, si capisce subito in che modo Roma venga raccontata, nel suo intreccio unico tra sacro e profano, nel contrasto tra l’anima diurna e ufficiale, e quella notturna e ufficiosa, che poi è quella che qui interessa. La Roma dove si impara, per necessità, che la via dritta è il labirinto.
La Roma del Vaticano che affitta un locale che diventerà la sede delle prime serate del Muccassassina, quelle danzerecce gay e lesbo che per anni hanno rappresentato una delle grandi trasgressioni capitoline (come poi il Degrado, altro locale che verrà citato nel documentario).
Ma anche la Roma del potere, di quel potere che non senza ragione Dago non vede nelle sue manifestazioni esteriori, negli eletti di turno, nelle figure a capo di questo o di quello, ma di quell’apparato silenzioso e sotterrano che il potere lo gestisce da anni, decenni, incuranti dei cambi di governo. Quel potere che insegna, a Roma, che i nemici non si combattono, ma si seducono o si comprano, lezione che per Dago Berlusconi fece sua facilmente, e che altri di quelli che chiama “pendolari”, come un Agnelli, non riuscirono invece mai a introiettare.
D’altronde, per Dago, come ha detto in conferenza stampa, a Roma si aspettano i barbari, ma questi diventano presto Barberini: li si porta in trattoria “con quattro zoccole vicino, e in due minuti diventano stronzi come noi”.
Ecco, non è solo la trasgressione, che viene raccontata in questo film, con le esperienze in prima persona del leggendario buttafuori di mille locali Carmelo Di Ianni, di Vladimir Luxuria, di Vera Gemma, o di un irresistibile Massimo Ceccherini che parla delle nottate folli tra alcool, “polverine” e prostitute che gli sono costate non solo un patrimonio, ma anche, quasi, la vita.
Non c’è solo la dimensione aneddotica, pur gustosa, che arriva per bocca dei Carlo Verdone e degli Enrico Vanzina, o dello stesso Dago, protagonisti illustri sconosciuti come Helmut Berger o Renato Zero o Monica Guerritore.
Non è solo il potere, nelle sue forme più oscure (e non dimentichiamo che la strada di Dagospia, la creatura più nota di Dago, si è incrociata in passato con quella di Luigi Bisignani, il faccendiere definito “il manager del potere nascosto” e autodefinitosi “l’uomo che sussurra ai potenti”).
No, quello che Roma, santa e dannata racconta, forse più di ogni altra cosa, è quello straordinario mistero rappresentato dal carattere di Roma e dei romani. Quello che fa diventare anche i barbari “stronzi come noi”.
“A Roma non bisogna muoversi né agitarsi”, dice ancora Dago. Vivendo lì dove vivono, dove il senso del passato e del tempo è fisicamente tangibili nelle rovine, nei palazzi, nei monumenti e nelle strade, “i romani non confondono mai la cronaca con la storia”.
Che vuol dire tutto questo? Vuol dire che “il cinismo a Roma ammazza tutti”. Che il disincanto romano, quello che fece passare in secondo piano perfino il marziano di flaianea memoria, è un ventre molle, una sabbia mobile dalla quale è impossibile sfuggire. D’altronde lo sanno tutti, nelle sabbie mobili, come a Roma, agitarsi e sbraitare fa solo peggio.
Resta quindi la resa, la decadenza eterna, la pernacchia che “prima o poi parte”.
Roma - e Dago e Giusti in questo film lo confemano - accetta tutti nel suo “abbraccio bernianiano” ma non risparmia nessuno. Nemmeno i suoi miti.
Nemmeno un simbolo come Alberto Sordi, protagonista di un triste aneddoto raccontato dal suo erede Verdone: “Albe’, se semo invecchiati”, fu l’unico commento di un astante di fronte alla caduta dalle scale di un Sordi ottantenne e già malato.
Roma è così, santa e dannata. Anche i romani, di conseguenza, lo sono: a stare a Roma o sei un santo (più spesso, un martire), o diventi un dannato.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival