Rifkin's Festival: recensione del film di Woody Allen

03 maggio 2021
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Un Allen sicuramente minore, e non eccessivamente ispirato, ma che è in grado comunque di realizzare una commedia leggera e mai stupida sulle grandi domande della vita, nel segno del grande amore per il cinema e in esemplare equilibrio tra serenità e malinconia. Al cinema dal 6 maggio. Recensione di Federico Gironi.

Rifkin's Festival: recensione del film di Woody Allen

Inconcepibile.
Non è colpa di Allen, e in fondo nemmeno mia, ma mentre vedevo Rifkin's Festival, e vedevo Woody raccontare la sua storia e rifare a modo suo, come piccoli film nel film, capolavori della storia del cinema come 8 e 1/2, Fino all'ultimo respiro, Persona o L'angelo sterminatore, io pensavo anche a Vizzini, e alla Storia fantastica. E in testa mi risuonava sempre quella parola: "Inconcepibile", che è la battuta simbolo di Wallace Shawn - alias, appunto, Vizzini - in quel film di Rob Reiner.
Pavlov non è passato invano.

Questa futile osservazione, a ben vedere, è anche un modo per dire, e rendersi conto, che Rifkin's Festival non è un capolavoro, né un film all'altezza di ultimi del suo autore, Un giorno di pioggia a New York e La ruota delle meraviglie, che invece viaggiavano su livelli altissimi.
La colpa non è di Shawn, che pure è una scelta non troppo convincente (come quella di Elena Anaya, mentre a modo loro perfetti per le rispettive parti sono Gina Gershon e Louis Garrel): il fatto è che il 48esimo lungometraggio di Woody Allen sconta probabilmente le turbolenze che hanno scosso la serenità del suo autore durante i mesi della sua realizzazione, e forse anche la "commissione" del festival di San Sebastián.
In sintesi: non è un film grandemente ispirato. E, dovesse essere l'ultimo lungo di Allen, come lui stesso ha ventilato, sarebbe forse un peccato.
O forse no: perché tra le pieghe di un copione un po' stanco, Allen trova comunque il modo di piazzare zampate che sono più sferzanti e aggressive, ma che sembrano alludere un'accettazione che procede sul filo affilatissimo tra malinconia e serenità.

Mettiamo da parte il giochino cinefilo, con i grandi film del passato rifatti da Allen e raccontati come sogni del suo protagonista (anche se, di questi tempi, che il cinema sia sogno tendiamo a dimenticarcelo troppo spesso, autori per primi).
Mettiamo da parte tutto il discorso sull'infedeltà, utile alla struttura farsesca del copione, o la satira leggera ma comunque azzeccata sul mondo del cinema contemporaneo, festival e giornalismo compresi.
Quel che rimane, scansate queste fronde ornamentali, è purissimo Woody Allen. Quel che rimane è la riflessione - esplicita che più non si potrebbe - sulle grandi domande della nostra esistenza, quelle che l'autore pone e si pone da sempre.
Altro che politica, altro che impegno più o meno sincero sulle grandi questioni internazionali: qui si parla del senso della vita.  Di una vita che senso non ce l'ha, forse, se non nel riempirla di tutti quei piccoli e grandi piaceri quotididiani e perfino triviali, così tipicamente alleniani e così splendidamente universali. Cinema compreso.

Mort Rifkin, l'alter ego alleniano col volto di Vizzini, nel corso di una manciata di giorni a San Sebastián si trova a fare i conti con la fine di un amore, con l'impossibilità di un'alternativa, con un mondo del cinema che non ama più (ma il cinema, ribadirlo non fa mai male, quello sì), e con la rinnovata consapevolezza che le sue ambizioni - scrivere un romanzo che sia un capolavoro destinato a rimanere nel tempo - sono sempre state eccessive e fuori dalla sua portata, e il suo ostentato e sarcastico snobismo intellettuale un'arma di autodifesa ben poco efficace (ed ecco allora che Shawn-Vizzini non è stato scelto a casa).
Eppure, alla fine di questi giorni, Mort Rifkin si ritrova ed essere più leggero e sereno di prima. Più malinconico, forse, ma anche più consapevole: perché nella vita quel che serve è sapersi accontentare, concedersi piccoli grandi piaceri e apprezzare il momento.

In quella che appare come una piccola e scanzonata seduta di autoanalisi collettiva, Rifkin's Festival è raccontato suo protagonista al suo analista. A a chiudere questa cornice, nel finale, Mort chiede al terapista, e quindi a noi: cosa ne pensiamo di quel che ci ha raccontato?
La mia risposta è che ha ragione lui. Ha ragione Woody; hanno ragione la sua malinconia e la sua serenità.
Bisogna sapersi accontentare, per essere felici. Anche di questo Allen qui.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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