Red 2 - la recensione del film con Bruce Willis e John Malkovich

02 agosto 2013
3.5 di 5
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Nelle mani di Dean Parisot Red 2 cambia pelle (ma non identità), diviene commedia pura nella quale l’azione e la trama spionistica sono supporto e non più spina dorsale della narrazione.

Red 2 - la recensione del film con Bruce Willis e John Malkovich

Quando due anni fa uscì nelle sale italiane Red, ne parlammo come una sorta di tentativo di farne l’Ocean’s Eleven del cinema d’azione contemporaneo, non solo per l’ensemble del cast ma per l’applicazioni di toni lievi, ironici, caratterizzati da uno humor controllato ma spesso ficcante, ad una trama e a vicende energiche e adrenaliniche.
Oggi, a dimostrazione di come i registi contino, anche gli onesti mestieranti come il Robert Schwentke di allora e il Dean Parisot di adesso,  Red 2 sembra quasi la versione speculare di quell’operazione.

Parisot è un uomo di cinema che ama la leggerezza. Al cinema con titoli come Galaxy Quest e Dick e Jane – Operazione furto, in tv con serie come la gloriosa Un medico fra gli orsi, Monk e Modern Family. La sua sensibilità è tutta improntata ad un umorismo evidente ma mai chiassoso, capace di giocare con le battute più esplicite quanto coi tempi e coi dettagli.
Nelle sue mani, allora, Red 2 cambia pelle (ma non identità), diviene commedia pura nella quale l’azione e la trama spionistica sono supporto e non più spina dorsale della narrazione.
L’operazione di Parisot, però, non è quella di una parodia, ché le dinamiche dello spy-action son trattate con una serietà tutta relativa nella loro essenza: ma sono costantemente straniate dall’atteggiamento tenuto dai loro protagonisti, sempre in qualche modo parzialmente distratti da altre questioni, altri interessi, altri pensieri.

Rispetto al film che l’ha preceduto, Red 2 ha un approccio all’umorismo (e quindi anche all’azione) più sfacciato eppure più understated, fatto di battute ficcanti e di momenti che guardano quasi al surrealismo.
Bruce Willis e John Malkovich, ancora una volta mattatori assoluti, non si aggirano per il film svogliati, come ha suggerito qualche osservatore negli Stati Uniti, ma hanno semplicemente un atteggiamento più blasé nei confronti delle sfide che affrontano, andando alla deriva senza alcun panico, lasciando che la corrente degli eventi li porti dove vuole: l’uno verso la commedia romantica, con le interazioni con la meravigliosamente stralunata Mary-Louise Parker; l’altro verso l’umorismo solipsista e dell’assurdo che guarda a certe comiche del muto.
Attorno a loro orbitano dettagli e frammenti più o meno riusciti: tra i primi vanno sicuramente annoverati Helen Mirren e soprattutto il personaggio de La Rana interpretato da David Thewlis e tutto ciò che lo riguarda; tra gli altri uno stucchevole Anthony Hopkins e il superfluo Brian Cox. Mentre nel mezzo si posizionano gli interventi sul film e la trama di Catherine Zeta-Jones e Byung-hun Lee.

Di difetti oggettivi, forse, il film di Schwentke ne contava di meno. Ma quello di Parisot si fa apprezzare forse di più proprio per questo motivo: per una schiettezza capace di (far) accettare l’imperfezione, per il suo non sforzarsi di essere ma essere e basta, e il suo lasciarsi trasportare con la medesima sardonica e taoista consapevolezza che hanno i suoi protagonisti principali.

 


 



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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