Qualcuno volò sul nido del cuculo: la recensione del capolavoro di Milos Forman
Nel 1976 vinceva i 5 principali Oscar l'indimenticabile film di Milos Forman Qualcuno volò sul nido del cuculo, tratto dal romanzo di Ken Kesey e con un cast all'epoca sconosciuto sotto la guida di un grande Jack Nicholson, al suo primo Oscar per questo film.
Nel 1962 Ken Kesey, scrittore e saggista, esponente della controcultura e sperimentatore dell'LSD, dà alle stampe un romanzo che ha scritto ispirandosi alla sua esperienza coi pazienti di un ospedale di veterani, e che prende il titolo dal verso di una filastrocca per bambini, ma ha anche un altro significato: si intitola “Qualcuno volò sul nido del cuculo”. In America cuckoo significa anche matto e il titolo allude anche alla fuga, al volo al di sopra di questo nido di pazzi, tentato dal protagonista. Il libro è narrato in prima persona da Bromden, il gigantesco indiano internato e tormentato dai guardiani, che finge di essere sordomuto. Il romanzo diventa un classico della cultura libertaria del periodo, un inno alla libertà di essere quello che si vuole e una denuncia della repressione delle istituzioni che, col pretesto di fare il bene di coloro di cui si prendono cura, tendono a smussare ogni aspetto individuale che possa in qualche modo mettere in crisi la pace derivante dal rispetto di regole e convenzioni stabilite dall'alto. Nel 1963 Kirk Douglas lo legge in bozze, se ne innamora, lo compra e lo porta a Broadway in versione teatrale, interpretando il ruolo principale e dando a Gene Wilder quello di Billy Bibbit. Poi tenta inutilmente di portarlo al cinema e vuole coinvolgere proprio Milos Forman, già noto in America per i suoi film cecoslovacchi. Per una serie di contrattempi talmente bizzarra da rischiare di far saltare tutto, solo 10 anni dopo il primo contatto i due si incontrano di nuovo, e sarà il figlio Michael Douglas a produrre il film che il padre è ormai troppo vecchio per interpretare.
Realizzato con un piccolo budget in modo totalmente indipendente, Qualcuno volò sul nido del cuculo è un film che, per quanto inviso a Kesey (che non perdona a Forman – sbagliando - la scelta di aver tolto la soggettiva di Bromden, che avrebbe comportato la presenza della voce fuori campo), sconvolge, coinvolge e commuove milioni di spettatori in tutto il mondo e vince i 5 maggiori Oscar: film, regia e sceneggiatura, consacrando con due statuette il talento dei due protagonisti, Jack Nicholson e Louise Fletcher, e presentando al mondo una serie di sconosciuti talenti, destinati in alcuni casi a diventare notissimi. 45 anni e molte ripetute visioni dopo, il film resta uno dei molti a cui negli anni Settanta si può tranquillamente applicare la qualifica di capolavoro: alla costruzione di un'opera senza cedimenti, in un crescendo che sale dal piano e moderato iniziale come l'ipnotica colonna sonora di Jack Nitzsche, contribuisce la scelta di girarlo all'interno di un vero ospedale psichiatrico nell'Oregon, confondendo attori e pazienti che appaiono in molte scene, e la volontà di rendere vera e autentica una storia che solo in quel periodo avrebbe potuto esser prodotta, con un lieto fine che non è tale, un criminale (è stupratore convinto di una quindicenne) che diventa l'eroe di un variegato gruppo di alienati mentali con cui entriamo immediatamente in sintonia, e un'infermiera rigorosa che non appare subito malvagia, ma che si rivela alla fine uno dei personaggi negativi più realistici visti al cinema, della categoria di quelli convinti di operare per il bene, che si fanno strumento del male.
La forza del film sono indubbiamente i personaggi: Jack Nicholson all'epoca è sulla cresta dell'onda ed è l'unica star del film, ha già interpretato un classico della new Hollywood in cui moriva (Easy Rider) e in Cinque pezzi facili, Conoscenza carnale e Il re dei Giardini di Marvin ha interpretato ruoli nevrotici e tormentati molto diversi da quello di Randall McMurphy. Per questo inizialmente Forman non è convinto che possa dar vita a quel personaggio, ma dopo il rifiuto di Gene Hackman e Marlon Brando e il consiglio di Hal Ashby, che gli mostra L'ultima corvée, capisce che è l'uomo giusto per la parte. E Nicholson, nonostante alcuni dissapori sul set, lo ricambia con una performance magnifica che diventa da allora in poi il suo marchio di fabbrica, e che in parte riprodurrà in Shining 5 anni dopo: basta guardarlo nella scena in cui finge di esser stato lobotomizzato, o quando scoppia in una delle sue pazze risate mostrando i denti, vedere la scintilla di malizia che gli si accende negli occhi, l'inarcarsi perplesso delle sopracciglia e ascoltare il tono suadente con cui parla quando vuole convincere l'autorità. Per ironia della sorte qua sarà perfino la causa della caduta del guardiano notturno interpretato da Scatman Crothers, il futuro mr. Halloran del film di Kubrick. Anche a Louise Fletcher Forman arriva tardi, ma, dopo aver considerato alcune note attrici che gli sembrano evocare meglio un'idea di malvagità e averla provinata un numero infinito di volte, capisce che l'interpretazione che lei si ostina a proporre è l'unica possibile e giusta e Nurse Ratched rimane un ruolo così iconico che è difficile immaginarla altrimenti, nonostante la bravura di Sarah Paulson nella serie tv dedicata al personaggio. Immacolata, gelida, intimidita e minacciata nel profondo dalla animalistica sensualità di McMurphy, con la sua pettinatura “cornuta” resta l'emblema perfetto della repressione “dal volto umano”.
Lo stesso controllo repressivo che Forman aveva conosciuto in patria e che non ha alcun problema a riprodurre nel film, che - pur restando una critica della società americana - diventa nelle sue mani un inno universale alla libertà e una condanna degli universi concentrazionari di ogni genere e nazionalità. E poi ci sono i magnifici svitati: il tenero, balbuziente Billy Bibbit (Brad Dourif al suo esordio assoluto, candidato all'Oscar), il piccolo, sorridente e insistente Martini (Danny De Vito), il maniacale Taber (Christopher Lloyd: un altro esordio), il bizzarro Friedrikson (Vincent Schiavelli), il preciso e colto Harding (William Redfield, morto un anno dopo il film e unico attore noto, col nome sui titoli di testa insieme a Nicholson e Fletcher), l'insicuro e piagnone Cheswick (Sydney Lassick, talmente compreso nel ruolo che i suoi colleghi e i medici stessi dell'istituto temettero a un certo punto stesse per passare il segno), Sefelt (William Duell) e l'eternamente stanco Bancini (Josip Elic). Appare anche nel ruolo di Ellis Michael Berryman, che lo stesso anno sarà protagonista di Le colline hanno gli occhi di Wes Craven (negli extra del dvd è possibile vederlo in una scena estesa). E Scanlon, il Generale, Ellsworth... ognuno caratterizzato in modo unico e riconoscibile.
E ovviamente non potevamo che chiudere con l'anima del film, il Grande Capo, il contraltare di McMurphy, la sua anima gemella, il gigantesco nativo americano che tutto sa e che tace, per non finire come il padre e come i troppi che ha visto sacrificati dall'uomo bianco. I due si annusano, si riconoscono, si amano, e sarà proprio lui a portare via con sé, se non il corpo, l'anima di Randall, in uno dei finali più belli, commoventi e liberatori di tutta la storia del cinema. Il fatto che Will Sampson fosse capitato lì per caso (unico della sua stirpe delle dimensioni giuste per la parte) e non avesse mai recitato in vita sua, da un lato fa pensare alla magia che sembra accompagnare certe opere e dall'altro non fa che rendere più evidente l'eccellenza di chi ha prodotto e di chi ha orchestrato il tutto, dirigendo un ensemble eterogeneo capace di trasmetterci senza retoriche e abbellimenti hollywoodiani il dolore di una condizione ma anche la dignità di quella che la società definisce follia e il diritto di chi ne soffre ad ottenere rispetto e attenzione, invece di reclusione e punizione.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità