Prisoners: la recensione del film con Hugh Jackman e Jake Gyllenhaal
Con un thriller di indagine Denis Villeneuve chiama in causa la violenza e le sue conseguenze.
Dopo la pausa relativamente ludica di Wolverine: L’immortale, Hugh Jackman torna a interpretare un personaggio che, pur ereditando l’istinto e la ferocia del mutante artigliato, ha più di un elemento in comune con il protagonista di Les Misérables.
Prigioniero non di una cella, ma di rabbia, frustrazione e terrore, l’ordinary man Keller Dover condivide con Jean Valjean non solamente il ruolo di padre, ma soprattutto una zona d’ombra, un lato oscuro che a Denis Villeneuve serve per investigare una delle più eclatanti contraddizioni dell’attuale uomo nordamericano: la deresponsabilizzazione nei confronti della violenza.
Appropriandosi del leit-motiv tipicamente mainstream dell’antieroe che si fa giustizia da solo, il regista franco-canadese si distacca dai film del filone “kick-ass” per riflettere sulle conseguenze della grande paura che ha contaminato gli Stati Uniti post 11 settembre, giustificando centinaia di pistole tenute sotto i cuscini e, su più vasta scala, gli orrori del carcere di Guantanamo.
Nella sceneggiatura di Aaron Guzikowski la denuncia non è però gridata, annodata com'è alle maglie di un intreccio che sposa un dramma di delitto e castigo con un classico thriller investigativo.
Collocandosi a metà fra Mystic River di Clint Eastwood e il David Fincher di Seven e Zodiac, Prisoners pecca certamente di qualche clichè tipico del genere – dalla lotta fra l’individuo e le istituzioni alla costruzione della personalità deviata del serial killer – ma colpisce per l'insolita trovata di una pluralità di prospettive: la stessa storia viene raccontata attraverso diversi punti di vista, senza dare torto o ragione a nessuno e senza creare eccessiva distanza dai personaggi.
Senza un simile parterre di attori, a cui aggiungiamo Viola Davis, Terrence Howard e un grandissimo Paul Dano, non sarebbe stato possibile infliggere tanto dolore agli spettatori con e senza figli.
Ci mette del suo anche Villeneuve, che con l'aiuto del direttore della fotografia Roger Deakins rende quasi tangibile l’atmosfera plumbea di un contesto extraurbano nel quale nemmeno la chiesa ha la possibilità di opporsi alla disgregazione della famiglia sostituendo al Dio-Televisione un qualsiasi pastore di anime.
Aldilà di una parte finale confusa, Prisoners è un film solido, che picchia duro con i suoi contenuti forti.
Chi non vuole vedere, lo prenderà come un buon prodotto di intrattenimento.
Chi ha già gli occhi aperti, invece, sarà chiamato al dispiegamento di tutte le proprie emozioni, oltre che a dare una risposta alla domanda che funge da slogan al film: Dove saresti disposto ad arrivare per difendere i tuoi cari?
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali