Piano piano: la recensione del film di Nicola Prosatore

10 marzo 2023
3.5 di 5
61

Presentato al Festival di Locarno prima, e in Alice nella Città poi, l'esordio nel lungometraggio di finzione di Prosatore (registra, tra le altre cose, della docuserie Wanda su Netflix) è un racconto di formazione che gioca con la fiaba, ribalta gli stereotipi, e non si appiattisce sul vintage del setting anni Ottanta.

Piano piano: la recensione del film di Nicola Prosatore

Anna si trucca, guarda fissa verso di noi. “Come sto?”, chiede. Poi muove quella che potevamo pensare essere la macchina da presa, o un telefonino col quale si riprendeva, e invece è uno specchio. “Tu si troppo bell’”, risponde lo specchio, specchio delle mie brame, si risponde Anna da sola.
Le note di una sonata classica per pianoforte si tramutano in quelle di “Self Control”, mentre Anna, “'a principessa”, si affaccia a guardare il cortile del suo castello, che è un caseggiato isolato alla periferia nord di Napoli abitato da un pugno di famiglie che sta per essere demolito. I lavori per l’Asse Mediano.
I ragazzi giocano a pallone, evocano Maradona sognando il primo scudetto per la loro squadra del cuore, gli adulti fanno gli adulti: c’è chi traffica, chi sbarca il lunario, chi si occupa di Anna: sua madre, che sogna per lei un futuro migliore, lontano dal quel mondo che merita sua figlia, una figlia che merita di più.

Sembra una favola, Piano piano. A modo suo, lo è. Quel mondo isolato, sospeso, eppure realissimo. Un castello segreto, pieno di bellezza e di intrighi, e con un punto d’accesso (coperto da un poster di Samantha Fox in topless) a un mondo ancora più segreto, a una specie di Eden naturale dove per Anna c’è una sorta di mela proibita. Lì si nasconde un Mariuolo, messo lì dal boss di Lello Arena, un boss di piccolo cabotaggio e poche parole.
Dal Mariuolo Anna è affascinata, come lo è, in maniera più sana, e più sicura, dal coetaneo Peppino, mentre la mamma vorrebbe proteggerla finendo con l’isolarla, e gli altri ragazzi - e soprattutto ragazze - l’hanno in antipatia per questa sua involontaria altezzosità.

Sembra una favola, ma è un racconto di formazione, il film di Nicola Prosatore, che segue con una macchina da presa mobile e fluida le traiettorie degli sguardi e dei desideri. Quelli di Anna, prima di tutti gli altri, certo, ma anche di chi le sta attorno, e la ama, la desidera, la vuole proteggere. Anna corre, ha fretta di correre, di diventare grande, ma il mondo dei grandi sa essere brutto, sporco e cattivo.
Scordiamoci però le retoriche solite, classiche, stereotipate su Napoli, la camorra, i malavitosi, i ragazzi di strada. Piano piano astrae, immagina, proietta. Il suo è un iperrealismo a tratti onirico, il mondo che racconta è fatto di sentimenti e azioni e personaggi concreti e reali, eppure osservati come dentro un acquario, per registrarne i comportamenti, le azioni. Soprattutto le reazioni.

Sempre a cavallo tra sogno e realtà, Prosatore pedina, tratteggia, osa. Con la macchina da presa, col montaggio, forte di un copione (scritto da lui e partito dai ricordi d’infanza di Antonia Truppo, la mamma di Anna) che è lecito e forse doveroso tradire con le immagini.
C’è tutta la passione, l’irrequietudine, la curiosità dell’adolescenza, nella storia, nelle parole e nelle immagini di Piano piano. E c’è anche la consapevolezza, spesso amara, dell’età adulta. C’è la responsabilità. La voglia di fare e quella di proteggere, quella di osare e quella di insegnare. Anna ha sua madre, scoprirà strada facendo un altro, improbabile mentore, e imparerà ad amare chi lo merita e la merita.
Mentre la musica suona, Anna piano piano si sfiora, Maradona segna, Samantha Fox e il suo seno nudo rimangono a far da improbabile soglia e la favola si conclude, o forse no, con un auspicato e imperfetto vissero per sempre felici e contenti.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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