Petit paysan: recensione del thriller contadino sorpresa dell'anno in Francia

20 marzo 2018
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Opera prima che unisce tensione e amore per la campagna.

Petit paysan: recensione del thriller contadino sorpresa dell'anno in Francia

Nonostante l’eccezione di Parigi, la Francia rimane un Paese ancorato alla sua cultura rurale. L’immaginario della Douce France, le cui radici risalgono ai poemi epici medievali arrivando ai versi di Charles Trenet degli anni ’40, è saldo terreno comune, dalle tavole imbandite ai calici pieni di vino. Per non parlare delle feroci difese a Bruxelles dei prodotti agricoli locali portata avanti da sindacalisti barricaderi come José Bové. In questo contesto, l’esordiente Hubert Charuel ha messo in scena un mondo a lui molto vicino. Nato in una fattoria, ancora gestita dai genitori, ha scelto poi di dedicarsi al cinema, invece che agli animali. Con saggezza ha rispettato il dettame di cominciare raccontando una storia a lui molto prossima, coinvolgendo i genitori e la stessa fattoria di famiglia per ambientare una vicenda che l’aveva molto colpito da ragazzo: l’epidemia di mucca pazza.

In Petit paysan ci porta ai giorni nostri a conoscere Pierre, trentenne che porta avanti l’attività di famiglia, e le sue vacche da latte, con rigore monacale e molta passione. Appena una delle sue mucche ha qualche linea di febbre è il primo a chiamare la veterinaria, sua sorella, per accertarsi che non si tratti di quella minacciosa epidemia in arrivo da lontano di cui i media stanno iniziando a parlare. Vincitore a sorpresa del César come miglior attore, Swann Arlaud è straordinario nei panni del protagonista, sempre in movimento per spinta nervosa, incapace di esprimersi se non nella difesa disperata delle sue mucche. Le loro vite sono legate dai gesti amorevoli con cui le ha aiutate a nascere, dalle albe condivise nella stalla, con il sottofondo della mugitrice a cullarli.

L’immagine forte con cui inizia il film, costantemente rievocata nei sonni angosciati di Pierre, è quella delle amate mucche che girano per casa, creando più un senso di disagio che di serenità domestica. Specie quando nasce un nuovo vitellino, il cui parto viene mostrato con coinvolgente realismo da Charuel. Petit paysan rievoca lo sguardo semi documentaristico associato di solito con il mondo rurale, ma trasforma le apparenze georgiche facendo emergere una sottile tensione, invisibile eppure sempre più inquietante, che cresce con l'aumento della temperatura provocato da questa febbre intangibile. Un nemico invisibile che colpisce solo gli animali e manda in crisi paranoica Pierre, il cui mondo inizia e finisce con la stalla, la mungitura e la pace che quella vita riesce a dargli. “Io so fare solo questo”, dice lui, seguito dalle considerazioni dei suoi amici, anche loro contadini, “come lo do un futuro ai miei figli?”. 

Un mondo solo in superficie all’insegno della libertà di un contatto non mediato con la natura, ma nei fatti pieno delle regole imposte dallo stato e dall’Unione Europea. Un thriller coinvolgente, soffocato dalla paranoia e da una febbre di altro tipo, ma non meno potente, che colpisce lo spettatore, attirandolo in una spirale di angoscia. La battaglia di Pierre è quella di un disperato Don Chisciotte pronto a tutto per salvare le sue mucche, la sua identità, il cui vitellino ultimo nato diventa un simbolo di rinascita per il futuro. Un esordio da non perdere, tra i migliori film europei della stagione.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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