Peter von Kant: la recensione dell'omaggio di Ozon al genio di Fassbinder
Al cinema dal 18 maggio Peter von Kant, l'emozionante rilettura ed omaggio di François Ozon all'opera e alla figura di Rainer Werner Fassbinder. La recensione di Daniela Catelli.
“Each man kills the things he loves”, ogni uomo uccide le cose che ama, scriveva il grande Oscar Wilde e queste parole cantava la voce roca e sensuale di Jeanne Moreau in Querelle, da molti considerato il testamento spirituale, uscito postumo, di Rainer Werner Fassbinder, la cui locandina è rispecchiata nel poster di Peter von Kant. La colonna sonora perfetta per la vita del geniale regista, che per amore ha sofferto e molto, probabilmente di più, ha fatto soffrire. Nel bellissimo omaggio, colmo di citazioni, tra la rilettura di Le lacrime amare di Petra von Kant e il biopic che gli dedica François Ozon, a cantare la canzone, stavolta in tedesco, Jeder tötet was er liebt, è Isabelle Adjani nel ruolo della diva lanciata dal regista, Sidonie. Se infatti inizialmente, per chi vede il film in originale, può sembrare straniante sentire i protagonisti parlare in francese, Ozon fa spesso ricorso alla lingua tedesca, regalandoci anche una ninnananna, Schlaf, Kindlein, schlaf, cantata da una delle protagoniste del film originale, la grande Hanna Schygulla. La storia, essenzialmente, è la stessa de Le lacrime amare di Petra von Kant, così come è l’ambientazione, di impianto teatrale come il film che Fassbinder trasse dalla sua stessa pièce, col rapporto sadomaso del protagonista col suo assistente e la follia d’amore per un giovane uomo che lo porterà alla disperazione, solo che al posto dell’algida e crudele stilista di Margit Carstensen c’è lui, Peter, che altro non è che Fassbinder, perché Ozon non fa che portare alla luce quella che è una delle storie più autobiografiche del regista tedesco, che ha spesso affidato ai personaggi femminili il compito di incarnare le proprie vicende sentimentali.
Nel documentario intitolato semplicemente Fassbinder, uscito solo l’anno scorso da noi, le persone a lui più vicine ne raccontavano anche le tragiche vicende amorose, in cui spesso aveva svolto il ruolo del carnefice. E’ così che quest'uomo di successo, prepotente e volitivo, un gigante nel fisico e nell’ego, si riduce a uno straccio per amore di un giovane e bellissimo prostituto, che fa diventare una star e da cui viene poi abbandonato, mentre schiavizza al tempo stesso il suo assistente che lo adora e subisce in silenzio. Peter von Kant alterna momenti di grande ironia e divertimento ad altri di profonda emozione: quando entra in scena Hanna Schygulla è come se quel cinema, quelle storie e quei personaggi straordinari tornassero a vivere mezzo secolo dopo, a ricordarci di quando il pubblico accoglieva a braccia aperte opere così dense di vita e passione. Ritrovare una delle attrici simbolo del "nuovo cinema tedesco", che da femme fatale si trasforma qua in madre amorevole e insultata dal figlio disperato assieme alla nipote, desta in chi ha vissuto quegli anni di straordinaria vitalità cinematografica un senso di riconoscenza.
Ci colpisce moltissimo l’eccezionale performance di un attore potente come Denis Ménochet, che si mette a nudo, letteralmente e psicologicamente, e veste con aderenza i panni reali indossati e resi iconici da Fassbinder: la camicia rossa col gilet di pelle, gli stivali, il completo bianco… il fantasma del regista prende vita e si reincarna nel corpaccione di un uomo che riesce perfino ad assomigliargli fisicamente, per quanto diversi i due siano nella fisionomia. Cocaina, alcool e farmaci sono i rimedi per una pena d’amore imprevista, quando il grande seduttore viene sedotto e manipolato e il pensiero del bellissimo corpo nudo dell’amante, riprodotto su gigantografie alle pareti, in un altare laico alla bellezza, sia posseduto da altri, diventa insostenibile. Perché per quanto la corazza della fama e del potere sembri proteggere dal dolore della dipendenza, non può niente contro la dirompente forza dell’amour fou, che non è un sentimento positivo ma una tempesta emotiva che nella mente del regista richiedeva, come il suo cinema, il raggiungimento di una perfezione impossibile, in un'ansia di vita che lo avrebbe portato troppo presto alla fine. Con questo film Ozon ha fatto un vero miracolo: prendere un capolavoro, rendergli omaggio e trasformare il cinema sul cinema nel ritratto amoroso di un genio tormentato, che ha declinato a sue spese le parole della canzone “Ogni uomo uccide le cose che ama”.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità