Perfetta illusione: recensione del film di Pappi Corsicato
Il regista napoletano parte da Balzac e arriva a Woody Allen passando per le soap della nostra brutta televisione. Lucidissimo e elegante, il regista corre però rischi argentiani nel perseguire una teoria che, nella pratica, rischia di risultare spiazzante. Recensione di Federico Gironi.
Bastano pochi minuti di Perfetta illusione e si capisce subito che quello che sta dietro la macchina da presa è un regista.
Abituati male, malissimo, da un cinema italiano e non solo che pare aver dimenticato l’importanza delle immagini, sgraniamo bene gli occhi di fronte a un Corsicato che sa piazzare e muovere la macchina da presa, giocare col fuoco e la profondità di campo, piazzare lì una zampatina camp in onore dei vecchi tempi, e che fa tutto questo avendo sempre un motivo, non per sterile sfoggio di capacità tecnica. Poi i personaggi del suo film, del film che stiamo guardando, iniziano a parlare e la banalità e l’implausibilità delle cose che dicono sembrano uscire dritte dritte da una soap opera di quelle brutte brutte, di quelle che allietano i pomeriggi televisivi di anziani solitari, o giù di lì.
E quindi? Quindi c’è che Pappi Corsicato è un uomo e un regista intelligente, che però corre il rischio - argentianamente, mi verrebbe da dire, nel senso di Dario - di concentrarsi così tanto sulla teoria del suo film, e sulla pratica della macchina da presa, da non sorreggere adeguatamente l’impianto con una cura adeguata, specie nel reparto della recitazione.
È pur vero che Giuseppe Maggio, Carolina Sala e Margherita Vicario, gli interpreti dei personaggi che animano il triangolo allestito da Corsicato, hanno i volti giusti per la storia che viene raccontata, ma gli standard della loro interpretazione non sono mai elevati, eufemisticamente. Ecco allora che, per fare un semplice esempio, Sala, più che una moderna Jean Seberg, arrivi a ricordi più la Andrea Osvart di certe fiction.
Il disegno di Corsicato è comunque chiaro.
Chiarissimo. Geometricamente netto, e rigoroso, come le architetture milanesi che riprende sempre cercando la strada per l’astrazione (in realtà parte del film è stato girato a Roma). Un disegno che persegue con affilata determinazione la messa in scena di una trama che parte, a volerne cercare le origini nobili, parte da Balzac e che affronta questioni rohmeriane e soprattutto alleniane, ma che Corsicato con perversa deliberatezza spinge verso il modello della telenovela televisiva.
Dalla pragmatica ma ingenua Paola alla Chiara figlia di papà dalle ambizioni curatoriali, passando per Toni, artista frustrato dal pragmatismo della prima e sedotto dalle possibilità (anche sessuali) della seconda, tutti in Perfetta illusione nascondono un cuore oscuro, riflesso delle ambizioni spropositate dei nostri tempi e di sempre, della mancanza di oggettività nei confronti di noi stessi e delle persone che amiamo. Personaggi innamorati delle loro maschere, tanto di aver dimenticato di indossarne una.
Corsicato sfoca, devia, si fissa su volti e dettagli, omette quel che ritiene omettere, si disinteressa dell’ovvio e, in questo modo, racconta di personaggi e di un mondo che non sanno cosa e come guardare, che sono miopi, distratti, persi dietro alle forme e ai colori e dimentichi della sostanza.
Se già non fosse stato chiaro dall’esplicito preambolo con l’uccellino e la voce narrante, Perfetta illusione si chiarisce nel finale come il tentativo di Corsicato di realizzare il suo Match Point: ma se, anche per lui, la teoria è chiara e precisa, non sempre la realtà del suo film supporta le alte aspirazioni.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival