Panic Room, la recensione del film con Jodie Foster e una giovanissima Kristen Stewart

13 maggio 2020
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Panic Room di David Fincher con Jodie Foster è una scommessa riuscita a metà.

Panic Room, la recensione del film con Jodie Foster e una giovanissima Kristen Stewart

Succube delle decisioni altrui, Meg (Jodie Foster) si fa convincere a comprare una grande casa su più piani a Manhattan, dove si trasferisce con la figlia adolescente Sarah (Kristen Stewart). Proprio durante la prima notte, tre ladri (Forest Whitaker, Jared Leto, Dwight Yoakam) penetrano nell'appartamento, per mettere le mani su una grossa somma nascosta in un bunker dal precedente ricchissimo proprietario. Non si aspettavano già le nuove inquiline, che si chiudono però proprio dentro il bunker...

Sulla carta Panic Room (2002) è uno di quei lungometraggi che potrebbero coniugare in modo molto felice ricerca stilistica, cinema di genere e riflessione sulle paranoie urbane. Con la regia di un Fincher reduce addirittura da un cult come Fight Club (1999), attori di rilievo come Foster e Whitaker, ci si aspettano sfumature, rigore e scavo psicologico... che purtroppo sinceramente abbiamo atteso quasi invano. A partire dai titoli di testa dal gusto alla Saul Bass, estetizzanti ma tuttavia un po' slegati dall'apparente tono cupo del racconto, Fincher sembra guardare al nume Alfred Hitchcock, del quale vuole riprendere lo studio della suspense, sfruttando tutte le occasioni che la sceneggiatura di David Koepp gli offre per costruirla nella geografia dell'ambiente, sui diversi piani dell'abitazione. Come Robert Zemeckis in Le verità nascoste, Fincher inizialmente dimentica il piede sull'acceleratore, affascinato da una CGI fuori controllo (sintetica e invecchiata) per lanciarsi in piani sequenza iperbolici e spiegoni, per trasmetterci le distanze della casa infilando le ottiche (virtuali) dove una macchina da presa reale non passerebbe mai. Man mano che il film procede la regia recupera tuttavia una sua essenzialità crudele, una tensione giocosa con lo spettatore, ottenuta spesso alternando la visione limitata, attraverso i monitor all'interno del bunker, con ciò che accade fuori, dandoci quel vantaggio che nessuno dei "due fronti in guerra" ha. Questo ragionamento è molto hitchcockiano e funziona, rendendo Panic Room per lo meno divertente.

Al di là di questo gioco di regia e spazi (eccellenti production design di Arthur Max e fotografia di Conrad W. Hall e Darius Khondji in tandem), c'è poco altro. Come esempio di cinema di genere, Panic Room è troppo preoccupato di annacquare la sofferenza dei suoi protagonisti, vittime e carnefici, con humor e strizzatine d'occhio fuori luogo, lasciando quindi ai pur ottimi attori solo lo spazio per mimare emozioni, non interpretare personaggi. Persino il possibile percorso emotivo di Meg, costretta dagli eventi a essere padrona di una situazione come s'intuisce non sia mai stata, non è sfruttato fino in fondo e si perde per strada. La dinamica nel terzetto dei ladri è abbastanza prevedibile, segnata nella caratterizzazione dei tre, sulla scorta dei loro stereotipi, con dialoghi che magari in mano a Tarantino avrebbero avuto un altro perché. Al di là poi dell'idea evocativa, il bunker non arriva mai come il simbolo di qualcosa di non detto, di una sfiducia, di una chiusura umana, ma diventa presto solo un escamotage visuale e pratico per mandare avanti la suspense concreta di cui sopra.
Non ci sarebbe nulla di male nell'intrattenimento onesto che Panic Room pur propone, se il curriculum delle personalità coinvolte non facesse, pensiamo legittimamente, sperare in qualcosa di più.



  • Giornalista specializzato in audiovisivi
  • Autore di "La stirpe di Topolino"
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