Padrenostro: recensione del dramma di Claudio Noce con Pierfrancesco Favino in concorso al Festival di Venezia 2020
Claudio Noce racconta in Padrenostro la sua storia familiare, il rapporto con il padre ferito in un attentato terroristico negli anni di piombo, in una storia dal punto di vista di un bambino di 10 anni che vive un mondo sconvolto dalla paura.
È tutta questione di punti di vista, specie quelli che la memoria impone ai ricordi. Il cinema italiano ha raccontato con qualche colpevole vuoto le pagine più cupe della sua storia recente, spesso assecondando rievocazioni utilizzando uno stile realistico se non didascalico, con intenti alternativamente pedagogici o politico militanti. Un’avvertenza è quindi necessaria: se cercate un report dei fatti a prova testimoniale lasciate perdere, Padrenostro di Claudio Noce è il tentativo di nobilitare l’universalità del cinema per superare un fatto personale e renderlo più vicino possibile allo specifico vissuto di ognuno di noi. Lo fa mettendo la camera fisica e quella emotiva all’altezza di bambino, utilizzando un linguaggio che è quello dell’infanzia, puro istinto ed emozione: la favola.
Padrenostro ha l’ambizione di trasformare un evento drammatico nello spartiacque che al giovane Valerio, 10 anni, apre le porte di mesi (anche) felici e di scoperta di due sentimenti cruciali: da una parte l’amicizia, per lui, schivo e solitario ma dalla immaginazione fervida, e dall’altra la forza impagabile di un rapporto con il padre che permetterà a entrambi di crescere.
A tratti sembra un gigante burbero eppure buono, con basette imponenti tipiche del periodo, il padre di Valerio (un convincente Pierfrancesco Favino al servizio della storia), vice questore a Roma che si occupa di terrorismo, e per questo sotto minaccia da parte degli estremisti di sinistra dei Nuclei armati proletari. Un mattino il terrazzo smette di essere terreno di giochi e diventa luogo di osservazione da cui capire che qualcosa non va. Poco dopo essere uscito con la scorta, il padre Alfonso è vittima di un attacco terroristico proprio sotto casa. Rimane ferito, mentre un nappista e un poliziotto della scorta perdono la vita. La madre scende disperata, vedendo da vicino cosa sta accadendo, seguita poco dopo da Valerio, non visto.
I giorni successivi sono i più difficili per il bambino in procinto di diventare ragazzo, quelli in cui rivive gli spari e la morte di uno degli assalitori. È il momento in cui il film inizia a elaborare con lui questo dramma, utilizzando la sua creatività di bambino, disegnando a terra tutta le scena con i pastelli, mentre la storia assume contorni favolistici, quelli in cui si immerge Valerio per convivere con la paura e la vulnerabilità che si percepiscono sempre più minacciosi a casa. Per fortuna conosce Christian, un ragazzino appena più grande e ancora più misterioso oltre che ribelle, arrivato dal nulla. Giunge l’estate e la famiglia decide di passarla in Calabria, luogo di origine di Alfonso, in un mondo incantato come è sempre quell’altrove estivo in cui si vivono molte prime esperienze da bambini. Quel periodo in cui si interrompe la sua quotidianità e la scuola per immergersi in una sorta di vita parallela.
Un’estate in cui la paura si scioglie nella gioia di avere più presente a casa il padre, che lo vedrà crescere e gli mostrerà allo stesso tempo le sue prime debolezze, scardinando per un attimo la sua figura altera e integra, quella del maschio che non deve cedere all’emotività e, insieme alla moglie, nascondere ai figli, Valerio e la sorellina piccola, come anche loro abbiano paura. Una scena in particolare, molto tenera e universale, mostra rinnovati spazi di comunicazione affettuosa e fisica fra padre e figlio. È ormai notte quando arrivano in Calabria dopo il lungo viaggio da Roma. Alfonso prende in braccio il figlio addormentato per portarlo in camera sua, con la camera che segue da vicinissimo la scena. Valerio fa finta di dormire, procrastinando quel momento, come ognuno di noi ha fatto sicuramente almeno una volta, godendosi attimi extra di pigra tenerezza. Un’estate in cui Valerio scoprirà l’amicizia, grazie all’apparizione di Christian, con cui condividerà una nuova complicità che non conosceva. Mattia Garaci, nei panni di Valerio, è eccellente protagonista del film, ben spalleggiato da Francesco Gheghi. Finalmente due giovanissimi assai convincenti al centro di un film italiano.
Padrenostro è un tentativo avvincente, compiuto e a tratti struggente, quasi unico nel nostro cinema, libero di viaggiare in un proprio universo, colorato anche davanti al dramma, che supera il realismo e i fatti concreti per diventare paradigma della presa d’atto che anche in anni drammatici, mai fino in fondo suturati da una verità condivisa, come quelli di piombo, c’erano altri testimoni a origliare dalle loro camere da letto: i figli, i bambini, quella generazione invisibile che potrebbe avere la forza di suturarle una volta per tutte, quelle ferite, con un abbraccio con cui condividere il dolore, senza banalizzarlo.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito