Operazione Vendetta, la recensione: una storia di spionaggio dal sapore anni Novanta (ma coi computer di adesso)
Il regista inglese James Hawes, quello della prima stagione di Slow Horses, ci prova anche sul grande schermo con questo film interpretato da uno spiritato Rami Malek. La recensione di Operazione Vendetta di Federico Gironi.
Lo schema è sempre lo stesso, risaputo: quello dei Tre giorni del condor, per intenderci, del povero analista che all’improvviso è costretto dalle circostanze a diventare un operativo, della persona più o meno ordinaria (magari non nell’intelligenza) in situazioni straordinarie. Non c’è ovviamente Robert Redford con quel pea coat che ha fatto storia, ma Rami Malek con la giacca della tuta dell’Adidas, perché i tempi sono quelli che sono, e magari anche perché, con pure tutti quei computer, il legame con Mr. Robot è più evidente. Malek, quindi, che qui tutto sommato funziona perché una cosa che gli viene bene: stiracchiare la sua faccia un po’ così, e strabuzzare quegli occhi a palla e sbarrati lì, per fare il sociopatico tutto cervello e niente muscoli che utilizza le sue capacità per fare quello che vuole e che deve. In questo caso, vendicare la morte della moglie ammazzata da dei terroristi. O forse solo fare giustizia, o magari tutte e due le cose insieme. Quasi come l’Eric Bana di Munich, ma con molti meno tormenti.
Poi certo, James Hawes non è mica Steven Spielberg, ma è pur sempre quello che ha diretto la prima stagione di Slow Horses, oltre a una carriolata di altre serie televisive, e la cosa si vede, e la cosa funziona.
Funziona lo spionaggio, che è una cosa che funziona quasi sempre, nel suo tentativo di fondere Le Carré con l’azione e di condire il tutto con le paranoie digitali del nostro tempo, con il grande spettro della sorveglianza, dell’intercettazione, della profilazione dei dati, dei sistemi di riconoscimento biometrici. Il tutto andando in giro per il mondo come da tradizione: si parte negli USA, si arriva nelle acque che separano Russia e Finlandia, passando per Londra, Parigi, Marsiglia, Istanbul, Madrid, la Romania.
Non tutto torna sempre, non tutto è credibile, e un paio di momenti in particolare sono figli di sciatterie di scrittura quasi imperdonabili, ma alla fine invece si perdona (quasi) tutto, a questo Operazione Vendetta, che diverte e intrattiene, senza entusiasmi ma con la piacevolezza di un cinema che ha rispetto per l’intelligenza dello spettatore, e che non mira solo a rimbambirlo a forza di botte o effetti speciali.
L’aria che si respira, pure contemporaneissima per via delle implicazioni tecnologiche, è quella di certi thriller, non necessariamente di spionaggio, dei primi anni Novanta, di quei film che giravano gli Andrew Davis e i Phillip Noyce, giusto per far due nomi. Ed è un’aria che rilassa e diverte, balsamica in un certo senso, tutto cinematografico.
Sono i dettagli che spesso fanno la differenza, e che sono importanti, e qui i dettagli importanti sono cose come Laurence Fishburne, una certa casa sul mare a Istanbul, la giustizia che viene fatta di quell'obbrobrio che sono le piscine dal fondo trasparente e sospese nel vuoto di certi alberghi di lusso. Ma anche il trionfo del pensiero e del ragionamento sull’azione massimalista e populista, nonché il punto che viene fatto su una tecnologia che non è giudicabile di per sé, ma per l’uso che ne viene fatto.
Quel che dettaglio potrebbe sembrare, ma che poi non è, è invece un’idea di cinema a misura di spettatore, di intrattenimento, che non sbraca né se la tira. Due ore di cinema che fa piacere aver vissuto. Anche con Rami Malek con la tuta dell’Adidas.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival