November - I cinque giorni dopo il Bataclan: la recensione del film
Più vicino a Mann che a Greengrass, Cédric Jimenez gira un film carico di tensione e di umanità, capace di adrenalina e commozione, preciso e nitido nella sua ricostruzione di un indagine ma complesso e sfumato nelle psicologie e nella morale. La recensione di November - I cinque giorni dopo il Bataclan di Federico Gironi.
C’è un prologo, all’apparenza vagamente bondiano.
Un drone che plana sui tetti di Atene, bambini per le strade, auto nere che sfrecciano e poi lasciano uscire le squadre speciali della polizia. Un’irruzione in un appartamento, la caccia a un uomo. A un uomo che, però, scappa, lasciando il Fred di Jean Dujardin, dell’antiterrorismo francese, con un palmo di naso. L’operazione è fallita, dice.
Serve ovviamente a calarsi nelle atmosfere tese del film, questo prologo. A presentare fin da subito a chi guarda la capacità di Cédric Jimenez di utilizzare uno stile energico, secco, balistico, preciso, che evita sempre i rischi della retorica così le trappole dell'amoralità. Uno stile capace di inserire la pausa carica di attesa e tensione nel mezzo del movimento e dell’azione. Uno stile più vicino, magari esagerando, a Michael Mann, che non a Paul Greengrass. Che pure.
Ma non è solo una questione di regia, di macchina da presa, di movimento o di stasi. Quel prologo serve a caricare di ulteriore peso psicologico il personaggio di Dujardin quando, dieci mesi dopo, a Parigi, dovrà dare la caccia ai responsabili degli attentati del 13 novembre 2015, il Bataclan e tutto il resto. Perché tra quei responsabili ci sarà l’uomo che gli è sfuggito.
E poi, ancora, e ancora di più, quel prologo serve per raccontare il sentimento che domina tutto November - I cinque giorni dopo il Bataclan: il sentimento di una perenne, disastrosa sconfitta.
Il sottotitolo già dice tutto.
Quello che Jimenez racconta nel suo film è il dopo. Quando la sconfitta più grande, quella di 131 morti, 494 feriti e migliaia di persone coinvolte, è già arrivata. Insanabile.
Eppure, qualcosa si deve fare. Cercare, indagare, scovare. Acciuffare i responsabili. Lavorando giorno e notte, impegnandosi, prendendo iniziative, sbagliando. Perdendo. Il personaggio simbolo, da questo punto di vista, è quello interpretato da Anaïs Demoustier: Ines agente giovane e motivata, fin troppo.
È lei che, nell’ansia di ottenere risultati, non segue le procedure e commette un errore grave, ottenendo null’altro che una perdita sul suo stesso fronte. Quand’anche avesse vinto, e scovato un attentatore, il suo aver agito fuori dalle regole ne avrebbe vanificato il risultato.
È sempre lei che, più avanti nel racconto, raccoglie una telefonata cruciale, scovando così una testimone chiave, una ragazza che ha visto, che sa, e che potrebbe condurre la polizia da due degli attentatori. Rischiando di perdere tutto: un’amica, una vita. Forse la vita.
Così in November entra anche Samia (Lyna Khoudri), altro personaggio chiave di questo film così più ampio, e complesso, di quello che la sua trama, e forse perfino la sua superficie, può far immaginare.
Da un lato, con Samia, la spirale della tensione cresce, l’eccitazione del film sale, Jimenez può dedicarsi a sequenze vertiginose come quella del pedinamento di Hasna (Sarah Afchain), amica e coinquilina di Samia, ma anche cugina di uno degli attentatori in cerca di riparo e aiuto.
Dall’altro, può far levitare l’aspetto più teso e complesso del suo film, quello umano, psicologico, quello relativo alla sconfitta, che raggiunge una punta estrema nel corso di un confronto in balcone tra Samia e Hasna che ha dello straziante.
Perché, come in As bestas di Sorogoyen, anche in questo November - pure tesissimo, pure avvincente, pure preciso nelle sue traiettorie geometriche - è il cuore, il sentimento, al centro di tutto.
Per fare ciò che è giusto, Samia deve ingannare Hasna. Per fare ciò che è giusto, Ines deve promettere a Samia quello che forse non potrà mantenere. Per cercare di vincere, o inseguire quell’illusione, entrambe devono perdere.
Non c’è liberazione, non c’è rivincita, non c’è riscossa, in November. La sconfitta è già stata subita, la cicatrice rimarrà lì per sempre. Gli uomini cui gli agenti dell’antiterrorismo hanno dato la caccia per tutto il film, che sono stati identificati sulla pelle di Samia, e di Ines, non hanno fornito risposte, non hanno fronteggiato la giustizia. Sono morti. E tutto quello che i protagonisti del film hanno fatto per cinque giorni, si è volatilizzato.
Di fronte a tutti i suoi agenti, il Fred di Dujardin non ha di che esultare. Le vittime, le stesse che Emmanuel Carrère racconta nel suo nuovo libro, "V13", sono rimaste tali; il loro lavoro è stato vano, solo l’inizio di qualcosa di enorme ancora da compiere.
Non ci sono bandiere che sventolano, mani di stringere, congratulazioni da fare.
Non c’è nulla da festeggiare: resta solo da riconoscere la sconfitta, ricordare le vittime, e darsi da fare per arrivare, un giorno, a poter vincere qualcosa. Ammesso che "vincere" sia un verbo che ancora abbia un qualche senso.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival