Nostalgia: la recensione del film di Mario Martone in concorso al Festival di Cannes 2022
Perdersi vuol dire trovarsi, nella Napoli sconcertante e affascinante del Rione Sanità. Trovare sé stessi, il proprio passato, il proprio destino. Dal romanzo omonimo di Ermanno Rea Martone gira un film elegante, amniotico e viscerale, dal 25 maggio al cinema.
“Cara celeste nostalgia”, cantava Riccardo Cocciante.
La sua era una canzone d’amore per una donna. Il film di Mario Martone, che si chiama appunto Nostalgia, sempre di amore parla, in qualche modo: non per una donna ma per una città, per la propria storia, e per gli anni della propria giovinezza.
La giovinezza, un po’ scapestrata che il protagonista della storia Felice (Pierfrancesco Favino) ha vissuto nel Rione Sanità, facendo impazzire la mamma mentre combinava guai piccoli e grandi con l’amico Oreste. Fino al giorno in cui i guai son stati troppo grandi, e Felice, spaventato, ha lasciato la Sanità, Napoli e l’Italia, sua mamma e Oreste, per ricominciare una nuova vita altrove.
Dopo quarant’anni di vita all'estero, gli ultimi passati al Cairo, dove è diventato un ricco imprenditore, Felice torna a Napoli, alla Sanità, per riabbracciare finalmente la madre anziana. E quello che trova, e che non trova, in questo suo tornare da straniero, è appunto la nostalgia per quel che è stato e quel che poteva essere, e la voglia di riallacciare i rapporti con quei posti, e quei personaggi, e fare pace col proprio passato. Ma non sarà facile.
E non era facile, nemmeno per Martone, gestire nella maniera adatta i toni di questo film, il rapporto del suo protagonista con quel sentimento sfuggevole e mobile che è raccontato dal titolo e dalla storia, senza diventare didascalico, senza essere melenso. Senza, al contrario, stare troppo distante dalle vicende e dalle passioni.
Trovare il fuoco giusto con cui raccontare la Napoli che del film è protagonista tanto quanto lo è Felice, e che all’inizio del film sconcerta, confonde e spaventa lui, e pure noi che guardiamo, e che lentamente si rivela ai nostri sguardi, e rivelandosi mostra tutta la sua complessità, e quella bellezza struggente e sentimentale che farà decidere a Felice di rimanerci, a Napoli.
Nonostante Oreste sia diventato un feroce boss camorrista, e gli abbia fatto arrivare un messaggio ben chiaro: lui, lì, è persona non grata, e non solo perché, pur musulmano, si è avvicinato tanto a un prete in lotta contro la malavita.
Per spiegare la capacità di Nostalgia di conquistare il cuore e lo sguardo dei suoi spettatori, oltre a sottolineare la potenza commovente delle scene in cui Felice si confronta con la madre anziana, e si prende cura di lei, e la lava e la pettina e la veste, o quella più esplosiva ma ugualmente carica di sentimento in cui Felice arriva finalmente faccia a faccia con Oreste - figura misteriosa e borderline, sorta di colonnello Kurtz napoletano, incarnato da un minaccioso Tommaso Ragno - si possono fare due facili esempi.
Il primo riguarda la lingua di Felice. Che all’inizio, esule da decenni e abituato a parlare arabo o francese, parla con un italiano strano e stentato, che solo per un istante, per un riflesso condizionato, mettiamo in relazione con il gramelot usato da Favino nei panni di D’Artagnan nei film di Veronesi, e che accettiamo rapidamente, come accettiamo sempre di buon grado, e con curiosità e interesse, le sue modificazioni, le sue evoluzioni, il progressivo ritorno al dialetto della gioventù.
La seconda è quello che potremmo chiamare "l’effetto Carlito’s Way", citando il capolavoro di Brian De Palma. Perché non serve aver letto il romanzo di Ermanno Rea che Martone ha adattato per capire in anticipo quale sarà la conclusione della storia di Felice, ma il saperlo, o l'ipotizzarlo, non sposta di un millimetro la partecipazione emotiva che si ha fissando lo schermo.
La storia di Nostalgia è trascinante, trascinante in una maniera amniotica e inesorabile, quanto più impone lo smarrimento, nel modo in cui segue l’evoluzione di Felice, che nella confusione fisica ed emotiva che lo circonda, e nel suo ritorno al grande utero catacombale napoletano, impara a ricostruire una mappa di sé e del mondo, e si riappropria non solo di una lingua, ma di un legame con la Sanità (e quindi con parti di sé che aveva smarrito e negato nel corso di una vita) che non si era mai davvero dissolto, ma era stato solo sepolto dalla polvere del tempo.
E non serve stare a speculare sugli esiti, e sulle destinazioni esistenziali, ma ci si gode l’immersione in un mondo e in una storia, e nelle loro emozioni ancestrali e profonde.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival