Non sposate le mie figlie 2: recensione del sequel della commedia francese di grande successo con Christian Clavier

07 marzo 2019
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Torna la coppia borghese gollista alle prese con le figlie sposate e scontente della Francia.

Non sposate le mie figlie 2: recensione del sequel della commedia francese di grande successo con Christian Clavier

Una coppia di benestanti della famigerata borghesia di campagna francese alle prese con il matrimonio, ben più multietnico di quanto si sarebbero augurati, delle loro quattro figlie. Era questa la premessa di Non sposate le mie figlie, trionfo al botteghino cinque anni fa da 150 milioni di euro nel mondo, con tanto di falsa rassicurazione per l’ultimogenita, la preferita, che li conforta, apparentemente, per aver scelto un cattolico e per di più di nome Charles, ma nero africano della Costa d’Avorio .Un soggetto esplosivo, trattato con un certo coraggio nel districarsi fra tabù e politicamente scorretto, che veicolava la morale che il razzismo non è solo una prerogativa del bianco, cattolico e occidentale, ma ci accomuna tutti quanti.

In questo inevitabile sequel, Non sposate le mie figlie 2Claude Verneuil (Christian Clavier) spera di godersi la meritata pensione dedicandosi alla sua passione, la storia, scrivendo la biografia di un improbabile autore. Ovviamente, le complicazione arriveranno presto, insieme a una nuova crisi famigliare, dopo il loro giro per il mondo a trovare genitori e parenti dei generi. Questa volta non sono le difficoltà fra le varie comunità ad essere al centro del racconto, o la formula transalpina dell’assimilazione alla repubblica, ma è quest’ultima a venire messa in questione, è la Marianne che non sembra più capace a difendere i valori di libertà, uguaglianza e fraternità. In questo, Philippe de Chauveron, che torna come cosceneggiatore e regista, ha preso atto di come siano peggiorati ulteriormente gli umori sociali della Francia in questi cinque anni. Viene raccontato un paese in cui esplodono sempre di più conflitti contro minoranze e ogni forma di diversità, tanto da far perdere ogni speranza a generi (e figlie), che sembrano decisi a lasciare il paese.

David in Israele, anche se con l’ebraico fa a pugni - ricordiamoci che è pur sempre una commedia -; Chao a Pechino; Rachid, avvocato come la moglie, in Algeria, dove spera di contribuire alla lotta per i diritti; l’ivoriano Charles preferisce mantenere almeno cinquemila chilometri di distanza dal padre e sceglie l’India.
Una nuova notizia bomba che rischia di tornare a mettere a dura prova le coronarie dei coniugi Verneuil, che vedono minato non solo il diritto di veder crescere i nipoti, ma addirittura la sana prosecuzione, su territorio gallo, del lignaccio della famiglia. I due penseranno bene di costruire un vero e proprio tour delle meraviglie della dolce Francia, per convincere figlie e generi a restare, spostando le responsabilità di una società isterica e inaridita su Parigi, tessendo un elogio della campagna, che del resto rimane la vera culla della nazione.

Non cambia lo schema comico del film, costruito su dialoghi divertenti e poco attenti al politicamente corretto, una quiete sconvolta bruscamente e ovviamente poi ricomposta senza troppo approfondire le cause reali della crisi. Particolarmente brusco appare il lieto fine, che appare particolarmente surreale in mesi di scontro sociale che non sembra in via di rapida conciliazione. Non aspettatevi, insomma, un’analisi sociologico troppo raffinata, ma rimane comunque, ancor più in questo secondo capitolo, una lodevole presa di coscienza dei nodi scoperti della Francia di oggi.

Quello che rimane, a un certo punto viene anche reclamato dalle dirette interessate, è il ruolo decisamente di contorno delle figlie Verneuil, qui sempre rappresentate in funzione del marito, in una riproposizione decisamente patriarcale delle relazioni famigliari.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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