Nasty: la recensione del documentario sul grande ribelle del tennis, Ilie Nastase
Al cinema dal 18 al 20 novembre con Fandango il film presentato al Festival di Cannes e alla Festa di Roma che racconta del primo numero uno al mondo, nonché del primo bad boy della racchetta. La recensione di Nasty di Federico Gironi.
Adesso a trainare il settore, e il genere, c’è anche l’effetto Sinner, ma anche prima degli exploit del giovane atleta della Val Pusteria l'interesse del pubblico di casa nostra per le storie di tennis era stato solleticato da una produzione internazionale di doc e serie che, dopo vari esperimenti in altri sport, aveva iniziato a dare attenzione alla storia del tennis e i suoi campioni.
E una cosa è stata chiara fin da subito: che quell’attenzione non andava solo alla contemporaneità dei Roddick, dei Nadal, degli Djokovic e dei Federer, ma era in qualche modo più particolare sulle principali figure del tour degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta. Sulla Golden Age della racchetta.
Se in Italia abbiamo avuto una serie incredibile come Una squadra, dall’estero sono arrivati documentari e docuserie su John McEnroe e Guillermo Vilas. E ora, in attesa che qualcuno racconti Björn Borg in versione diversa dalla fiction di Borg/McEnroe, è la volta di Ilie Nastase.
Ha vinto gli US Open e il Roland Garros in singolare e in doppio; a Wimbledon ha trionfato sia nel doppio che nel doppio misto. E quando la neonata ATP ha inaugurato il sistema computerizzato di ranking dei giocatori, il primo numero uno al mondo è stato lui (così come è stato il primo tennista a introdurre il colore in maglie e pantaloncini e polsini nei campi di gioco, e il primo atleta sponsorizzato dalla Nike). Ma a questi primati sportivi e non, e a uno stile di gioco elegante ed estremamente fantasioso assieme, Nastase ne ha associati altri.
Perché oltre a essere, col l’amico Ion Tiriac, il primo tennista provienente dalla Cortina di ferro e emegere nel gioco, Nastase è stato anche quello che, con i suoi comportamenti sregolati e provocatori, la sua voglia di stare in campo per dare spettacolo e fare teatro, con le sue polemiche e i suoi sfoghi di rabbia, è stato - anticipando personaggi mica da poco come Jimmy Connors e John McEnroe - il primo bad boy del tennis. E, di conseguenza, la prima star (pop o rock, poco improta) di uno sport fino a quel momento visto quasi esclusivamente come un gioco per ricchi e aristocratici e azzimati personaggi da country club.
C’è tutto questo dentro Nasty, documentario diretto a sei mani da Tudor Giurgiu, Cristian Pascariu e Tudor D. Popescu. Ci sono le interviste a campioni come Ion Tiriac, Jimmy Connors, Stan Smith, Björn Borg, John McEnroe, Billie Jean King, Rafael Nadal, Boris Becker e Yannick Noah (ma anche a cronisti sportivi, compreso il nostro Ubaldo Scanagatta). Ci sono i colpi imprevedibili e spettacolari e le liti coi giudici di sedia. Le partite famigerate come quella contro Arthur Ashe ai Masters del 1975 e le tante conquiste femminili. C’è l’impegno politico e c’è la finale di Coppa Davis persa in casa, a Bucarest, per via di una gestione dissennata degli incontri, che è stata forse volontaria nell’inconscio di un giocatore che pativa il regime, e che nel dopo Ceausescu fu eletto senatore.
Ecco, è in quella fase lì che Nasty, che di certo non ha ambizioni maggiori di quelle di essere un ritratto compiuto e affettuoso, si mostra documentario capace, a tratti, di cogliere sfumature impreviste, e livelli diversi da quelli che si agitano nella pur caleidoscopica superficie della vita e della carriera di Nastase.
Lì, e magari pure nella rinomata polemica attorno a delle parole infelici pronunciate da Nastase quando era diventato capitano della squadra di Davis del suo paese, e che fecero infuriare Serena Williams. Perché poi, tutti lì, nel documentario, a dichiarare che Nasty è così, che lui scherza, che lui è un buono, che solo non è stato in grado di capire che, nel mondo di oggi, certe cose non le puoi più dire, nemmeno in buona, buonissima fede.
Certe cose che faceva e diceva Nastase, in campo e fuori, oggi sono impensabili, lo dicono tutti. Per la sua anarchia, per le sue contraddizioni, per la sua testarda voglia di vivere e giocare secondo regole istintive fino all'auto sabotaggio, non c’era comprensione allora, figuriamoci oggi.
Ma in fondo, di Nastase, dei Nastase del mondo, del loro surrealismo c’era bisogno allora, come c’è bisogno anche oggi. E nella malinconia che in qualche modo si nasconde lungo tutto questo racconto, si nasconde questa mancanza.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival