Moon, recensione del film di fantascienza di Duncan Jones
All’inizio della carriera, papà David Bowie sosteneva di provenire da Marte. Duncan Jones, oggi, ci (ri)porta sulla Luna. Lo spazio fa evidentemente parte del patrimonio genetico di famiglia. E il talento, anche.

Moon - la recensione
All’inizio della carriera, papà David Bowie sosteneva di provenire da Marte. Duncan Jones, oggi, ci (ri)porta sulla Luna. Lo spazio fa evidentemente parte del patrimonio genetico di famiglia. E il talento, anche.Utilizzare lo splendido e variegato aggettivo “lunare”, per parlare dell’esordio di Duncan Jones, sarebbe fin troppo facile e scontato. Ciò non toglie che molte delle sfumature di significato della parola in questione (da quelle più concrete a quelle più metafisiche) si adattano perfettamente ad un film tanto essenziale quanto complesso come Moon.
Ci vogliono coraggio e talento, per girare oggi un film che guardi alle derive più filosofiche e antispettacolari della fantascienza (di ieri) riuscendo a far sì che non solo funzioni, ma che lo faccia sia ad un livello più puramente superficiale e di genere che a quello più strutturato e profondo. E Jones ha dimostrato di possedere entrambi. Il confronto con chiari ed espliciti modelli come 2001 Odissea nello spazio, o Solaris, ma anche certe atmosfere di Alien o alcune variazioni sui temi di Blade Runner, poteva risultare catastrofico per un regista agli esordi: ma in questo caso si tramuta invece in un successo che ha i crismi dell’omaggio da un lato e della rielaborazione contemporanea dall’altro.
Grazie ad una scrittura intelligente e alla capacità di fare del basso budget a disposizione , Moon propone una solida vicenda di genere - nella quale non mancano nemmeno echi dickiani - tra le cui pieghe è facile scorgere il nucleo di un messaggio che ribalta e aggiorna un grande assunto della fantascienza del passato, nonché molte delle aspettative basate sui luoghi comuni del genere. Il problema non è (più) nella (dis)umanità della macchina, della tecnologia o dell’intelligenza artificiale: al contrario, in Moon il prodotto e l’applicazione della tecnologia (di qualsiasi, tecnologia) sono le uniche cose che conservano barlumi di umanità laddove gli uomini si sono invece totalmente asserviti al cinismo e all’avidità."We're not programs GERTY, we're people", dice (uno dei) Sam all'intelligenza artificiale che amministra la base dove lavora.
Jones parla di etica, quindi, e di etica assai attuale nella contemporaneità: biologica, economica, umana. Ma senza mai dimenticare le esigenze di un cinema che è fiero dalla propria indipendenza intellettuale e finanziaria e che non perde mai di vista l'esigenza di uno spettacolo mai fine a se stesso e che possa e debba essere fruibile a più livelli, anche i più immediati. Ed ecco allora che il regista utilizza con intelligenza il fascino inquietante delle atmosfere e dei twist della trama, mai facendosi prendere la mano da facili (ab)usi ma lasciando che sia il minimalismo della forma e del racconto ad amplificare le emozioni e le reazioni dello spettatore, come suoni lievi che riecheggiano e rimbalzano in una sala fortunatamente poco ingombra.
Ed ecco allora che le vicende d(e)i Sam (Rockwell, bravissimo), accompagnate dalla musiche ipnotiche di Clint Mansell e settate in luoghi che sucitano tanto claustrofobia quanto più sono spazialmente estesi, acquistano efficacia e soprattutto quella carica umana ed empatica, politica, che sono il fulcro della fantascienza che voglia essere qualcosa di più di una mera esibizione di tecnica ed effetti speciali.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival