Miele - la recensione del film diretto da Valeria Golino
Se non altro, a Valeria Golino va riconosciuto il merito e il coraggio di non essersi scelta un tema e una storia facile, per l’esordio nella regia.
Se non altro, a Valeria Golino va riconosciuto il merito e il coraggio di non essersi scelta un tema e una storia facili, per l’esordio nella regia.
Miele, infatti, tratta di suicidi assistiti di malati terminali, visti dal punto di vista una giovane che, appunto, assiste e che per compensare tanto dolore si aggrappa con rabbia a scampoli di vita incerti e precari, e tocca corde e temi che, in un paese come il nostro più ancora che in altri, sono ad alto rischio di polemiche e strumentalizzazioni.
Ma la neoregista, che qui sceneggia anche e rinuncia con intelligenza al voler apparire sullo schermo, mostra una determinazione e una misura che la mettono al riparo dalle critiche più ideologiche.
Golino si aggrappa ad una protagonista tormentata e sofferente, interpretata con altalenante intensità da Jasmine Trinca, fornendo a Miele uno sguardo e un punto di vista squisitamente ma mai militantemente femminili, ragionando sui temi della vita e della morte ponendo questioni che riguardano soprattutto la degna continuazione della prima, prima ancora che una libera e dignitoso scelta della seconda.
Vi si aggrappa con tenacia, forse troppo, troppo preoccupata di fornire un ritratto intimo e fragile da supportare con lutti mai superati e amori spezzati, sublimati nell’attività dolorosa di chi si mette al servizio della fine di una sofferenza non più sopportabile, perdendo così a tratti di vista una dialettica che travalichi quella interiore della protagonista.
Allora non è un caso che Miele trovi i suoi momenti migliori e più intensi con l’irrompere sulla scena del personaggio di Carlo Cecchi, ingegnere avanti con gli anni che vuole anche lui farla finita, ma per un male oscuro della mente e non del corpo. Nichilista e deluso dalla volgarità del mondo, il personaggio di Cecchi fa saltare le certezze, le routine e i nervi della protagonista, che si rifiuta di aiutare uno che, secondo i suoi standard, non è malato e con il quale costruirà il rapporto che con suo padre, evidentemente è sempre mancato.
Salta, quindi, la routine della Trinca (anche stimolata attorialmente dal confronto col collega), meno quella della Golino, che racconta un andirivieni di personaggi e situazioni senza mai scartare dal binario su cui si è piazzata fin dall’inizio, senza mai sorprendere, sacrificando il dinamismo narrativo adagiandosi sul tema e sulla forma.
Una forma che, per essere frutto di una mano inesperta, è di tutto rilievo, mai banale, ricercata fino a rasentare e in qualche punto abbracciare l’eccesso consapevole e compiaciuto di formalismo pur nel contesto di una fotografia plumbea e dolente sia nella scelta dei colori che in quella delle inquadrature.
Valeria Golino, quindi, avrebbe potuto essere più netta e radicale, rinunciare ad alcuni abbellimenti retorici anche nella narrazione, avrebbe potuto rischiare un po’ di più strutturando alcuni conflitti in maniera meno semplicistica e prendendo delle posizioni più nette e meno autoassolutorie.
Ma, nel complesso, il suo Miele rimane comunque un esordio interessante e soprattutto promettente, se la neoregista sceglierà alla sua seconda prova di dismettere del tutto alcuni vezzi tutti nostrani e di trovare la forza di perseguire senza distrazioni quella ruvidità amara che emerge nei momenti migliori del film.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival