Memento, la recensione del disperato puzzle di Christopher Nolan
In Memento di Christopher Nolan, Guy Pearce interpreta un uomo privo della memoria a breve termine: nella nostra recensione ve ne spieghiamo le conseguenze tecniche e poetiche.
Leonard detto Lenny (Guy Pearce) è in città perché vuole vendicarsi di chi ha stuprato e ucciso sua moglie, ferendolo tanto da causargli un danno cerebrale permanente: ha perso la memoria a breve termine, quindi tra un giorno e l'altro, a volte persino nella stessa giornata, Lenny non sa più dove si trova nè perché. Si aiuta con tatuaggi, appunti, polaroid, ma i suoi ricordi sono solidi soltanto fino al momento del trauma. Men che mai ha idee chiare su chi sembra volerlo aiutare: la barista Natalie (Carrie-Anne Moss) e una sorta di detective privato di nome Teddy (Joe Pantoliano). Saranno sinceri? Sono davvero chi dicono di essere?
Al suo secondo lungometraggio dopo Following (1998) ma al primo con un vero budget, Christopher Nolan con Memento (2000) scosse il mondo del cinema di genere autoriale, mettendo già al primo posto della sua ricerca stilistica e tecnica una personale battaglia contro la forzata linearità del mezzo cinematografico. Non è un gioco fine a se stesso, anche se Christopher, autore della sceneggiatura basata su un racconto di suo fratello Jonathan Nolan, non ha nascosto il proprio soddisfatto divertimento per la struttura filmica di Memento.
La macchina cinematografica viene piegata, esplorata e riplasmata per raccontare al meglio ciò che altrimenti sarebbe raccontato parzialmente: in un noir giallo come questo, dovremmo essere dalla parte dell'investigatore / vittima, però una narrazione tradizionale ci porrebbe inevitabilmente in uno stato di onniscenza rispetto al personaggio che soffre di un tale handicap, avremmo un vantaggio che farebbe perder forza al dramma. Per immedesimarci nella sua avventura, dobbiamo essere costantemente confusi come lui, così Nolan narra la vicenda in scene a ritroso, segmenti della coscienza di Lenny ogni volta "riavviata". L'introduzione stessa, riavvolgendo letteralmente una scena, ci suggerisce come Memento funzioni, oltre a presentarci l'ossessione che 20 anni dopo darà origine a Tenet. Prima che questo stratagemma stilistico diventi meccanico, Nolan accelera via via la durata di questi segmenti, riuscendo nella paradossale impresa di aumentare il ritmo... al contrario, facendoci rimuginare sul legame delle sequenze con una cornice portante girata in bianco e nero. In un flashback, scherza persino sulle nostre convenzionali aspettative, quando la moglie di Lenny rilegge per l'ennesima volta un libro e il protagonista è perplesso: "Ma il bello di leggere un libro è proprio non sapere cosa succederà dopo". Per Nolan è chiaramente una presa di posizione banale.
Onestamente, se Memento fosse solo un riuscito gioco di prestigio della settima arte, forse non colpirebbe come riesce a fare, lasceremmo Nolan con una pacca sulla spalla a intonare "Brava" di Mina davanti a uno specchio. Quando il meccanismo si fa chiaro, complici le regole di un noir amarissimo e disincantato come il genere comanda, la solitudine claustrofobica del protagonista si abbatte però su chi guarda, con un'efficacia potenziata sì dall'originalità della struttura, ma comunque sincera. Come ben sa chi si è scontrato con la perdita della memoria dei propri cari, nel trascorso delle nostre esperienze registrate nel cervello c'è la nostra identità, e solo in quella c'è un barlume di senso per il nostro stare al mondo. Lenny lotta contro il mulino a vento della sua malattia, e Nolan ha la geniale idea di inframmezzare la sua storia con quella di un caso che Leonard, da ispettore dell'assicurazione, aveva affrontato: tale Sammy Jankis, un uomo dolce e premuroso che, soffrendo dello stesso problema, aveva fatto disperare la moglie devota. Sarà che Sammy ha le fattezze umanissime e naturalmente simpatiche di un grande caratterista come Stephen Tobolowsky, ma più si prosegue in Memento, più lo stupore e la confusione lasciano spazio alla commozione. E' vero, è con Memento che Christopher Nolan cominciò a stupirci, però qui per farlo non aveva ancora bisogno di elementi fantascientifici o surreali: il suo approccio cerebrale dipingeva per il momento, con spietata quanto sicurissima e necessaria tecnica, soltanto l'abisso della nostra umana fragilità.
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"