Mektoub, My Love: Canto Uno, la recensione del film di Abdellatif Kechiche in concorso al Festival di Venezia 2017
La vita, la carne, l'erotismo, i sentimenti: il regista franco-tunisino torna con un altro film fluviale e trascinante, che ti cattura e non ti molla più.
La prima volta che ho visto un film di Abdellatif Kechiche è stata proprio qui a Venezia, dieci anni fa.
Il franco-tunisino presentava in concorso il suo Cous Cous, e mi ricordo che entrai in sala svogliato, convinto di trovarmi di fronte a un film non nelle mie corde, che magari avrei mollato dopo non molto.
Rimasi invece a bocca aperta, incapace di staccare gli occhi dello schermo fino alla fine, quella fine così potente e dolorosa.
In fondo, sulla carta, anche la vicenda di Mektoub, My Love: Canto Uno, non è particolarmente interessante: perché in fondo non racconta nulla, se non lo scorrere dell’estate trascorsa dal protagonista e dal suo gruppo di amici e parenti, senza che accadano eventi particolari. Ma come allora, come per La vita di Adele, ti porta dentro quella cosa lì, e non ti lascia più uscire fino a quando vuole lui.
Perché Kechiche fa quella cosa lì, e forse la fa meglio di chiunque altro al mondo, oggi: non a caso Venere Nera, che invece era un film con una storia ben precisa e delineata, è senza dubbio il suo film meno riuscito.
Di Cous cous, in Mektoub, ritroviamo la cittadina di Sète, un ristorante, la comunità tunisina e le dinamiche tumultuose eppure elementari di un gruppo di amici e familiari. Della Vita di Adele, invece, torna la prepotenza della carne e dell’erotismo, le energie irrefrenabili dei sentimenti e dell’attrazione.
Il giovane protagonista Amin (che poi è evidentemente lo stesso Kechiche, nonostante il film sia liberatemente tratto da un romanzo parzialmente autobiografico di Francois Bégaudeau) ha vent’anni, sogna di diventare sceneggiatore e fa il fotografo, e torna a Sète da Parigi, dove studia, per passare l’estate. Lui è lo sguardo attraverso il quale conosciamo Ophèlie, bomba erotica di cui Amin è evidentemente innamorato, ma che ha una relazione con sui cugino Tony e un promesso sposo sotto le armi. E conosciamo la sua famiglia, i suoi amici, la coppia di nizzarde che lui e Tony - inguaribile seduttore - rimorchiano in spiaggia e fanno diventare parte integrante della comitiva, esattamente come Kechiche fa con te seduto in poltrona a guardare.
A guardare come fa Amin, che più che agire osserva, osserva le chiacchiere, i pettegolezzi, i baci, le liti, le cene e i pranzi, i balli in discoteca, le coppie che si formano e si lasciano e si mescolano, i giochi in spiaggia, tutta l’energia inarrestabile della giovinezza, dei vent’anni, del sesso e dei corpi.
Amin osserva la vita che scorre attorno a lui, che lo travolge ma che lui sceglie di vivere ai margini, aspettando Ophèlie (arriverà mai, per lui? Lo scopriremo solo nel Canto Due, che avrei visto subito, per altre tre ore, fosse stato disponibile).
In fondo anche Kechiche racconta i margini, perché non s’immerge mai davvero in nessuna vicenda, non va mai in verticale da nessuna parte, e appena pensi che lo stia per fare, o che possa farlo perchè dai, su, sarebbe ovvio, lui fa qualcosa di altro, controintuitivamente anche rispetto alle scelte e agli sguardi dei suoi personaggi.
Quello che racconta è un magma, un liquido denso e caotico, un turbinare di cose, eventi e persone che ti trascina con sé, e tu non hai scelta.
Perché Kechiche non parte dalla testa, dall’intelletto, per raccontare quello che vede Amin, che ha visto lui a vent’anni, e che noi abbiamo visto come lui.
Kechiche parte dai corpi (qualcuno, dopo il film, ha detto che Mektoub e come un Rohmer carnalizzato, e ha ragione). Parte dai culi e dalle tette, dai pettorali e dalle pancie, dai capelli e dai denti che sbucano dai sorrisi. Dal sudore del sesso e del ballo, suonando una musica alla quale non resisti, e che ti fa battere il cuore.
Perché anche il cuore è corpo, e carne. E può battere frenetico in discoteca, ma anche per le emozioni: quella di spiare dalla finestra tuo cugino che scopa la ragazza che ami, quella di osservare e fotografare la nascita di due agnellini, dopo ore di attesa, in un’unica scena di sospensione dal tumulto che è quasi commovente, e che sempre di vita, e di carne, continua a parlare, pure se in maniera diversa.
Tre ore di film, di un film che non finisce, con altre tre ore che ci aspettano, in futuro, per sapere qualcosa di più, per rientrare in quel mondo del quale ti sei sentito parte grazie a questa cosa fa Kechiche, e che oggi fa solo lui.
Poi, quando sei fuori, puoi anche fermarti a pensare quale incredibile capacità tecnica abbia, questo regista, per fare quelle cosa lì. Puoi a mente fretta rievocare quel dettaglio, quella scena, quel movimento di macchina, quel montaggio. E rimani a bocca aperta, perché capisci che hai di fronte un talento incredibile.
Ma mentre sei dentro, pure lì a bocca aperta, pensi solo a quello che vedi. Ai corpi che si muovono, si spostano, si toccano, mangiano, si baciano, ballano. Pensi a quella vita, a quella giovinezza. E anche alle tue.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival