Marilyn - la recensione del film con Michelle Williams
Presentato fuori concorso al Festival di Roma 2011, Marilyn, il film di Simon Curtis con Michelle Williams e Kenneth Branagh arriva nelle nostre sale il 1 giugno. Ecco la nostra recensione del film.
Nel 1956, quando già era la stella cinematografica più famosa e amata del pianeta, Marilyn Monroe volò in Inghilterra, dove Laurence Olivier la volle come protagonista femminile di un film da lui scritto e diretto, Il principe e la ballerina.
Alla produzione di quel film lavorava un 23enne alla sua prima esperienza sui set, Colin Clarke, col ruolo di terzo assistente alla regia: in pratica, poco più di un galoppino.
La fragile e insicura Monroe fu subito in difficoltà davanti ai modi di Olivier, alla pressione del lavoro, all'improvvisa partenza del neo-marito Arthur Miller. E trovò in Clarke il supporto, l'amicizia e l'amore necessari per andare avanti, finire il film e mantenere fulgida la sua stella.
Clarke, che cadde come una pera cotta di fronte al sex appeal e alla delicatezza umana della diva, pubblicò solo nel 1995 i diari relativi a quei giorni magici e complessi passati al fianco della Monroe, e ora quelle memorie sono diventati Marilyn.
"Si materializzò sulla porta come l'ultimo dei pensieri, quello che non ti capita mai in testa, quello che quando arriva fa "bang", e per qualche minuto hai la mente vuota e non sai pensare ad altro". Così parlò lo stesso Arthur Miller riferendosi al primo incontro con la Monroe. E così, in Marilyn, la diva piomba nella vita di un ragazzo giovane e inesperto, ma sensibile e maturo a sufficienza da vivere con relativa consapevolezza un rapporto complesso. Il film diretto da Simon Curtis lo racconta con efficacia, diventando l'ennesimo tassello di una storiografia quasi sterminata che, fin dal giorno della sua morte, ha cercato di restituire la complessità e il mistero di quella che, in termini di star-system, è stata la più grande diva che il cinema abbia mai conosciuto.
Un tassello, non un ritratto completo. Perché il materiale di partenza è necessariamente soggettivo, e questo Curtis e lo sceneggiatore Adrian Hodges sembrano averlo capito molto bene.
Al di là del livello alto delle interpretazioni di tutto il cast, i pregi maggiori di Marilyn risiedono proprio nell'ammissione di parzialità del suo sguardo e del suo racconto, nella rinuncia alla pretesa di possedere la verità e nella consapevolezza di poter raccontare solo quanto la stessa attrice lasciava trapelare. La stessa consapevolezza umile che pare possedere Michelle Williams, che rinuncia ad ogni velleità mimetica per far vivere il suo ritratto di semplice (ma efficacissima) intepretazione.
Antispettacolare e (fin troppo) misurato, mai sciacallo sul cadavere del personaggio che racconta, il film di Curtis ne restituisce le luci e le ombre, quella che ancora Miller ebbe a definire "la vitalità di una donna che non si capisce ma che sembra sul punto di illuminare una vasta distesa di oscurità che ci circonda" e quegli aspetti spinsero Tony Curtis a dire di lei "è matta come un cavallo". Racconta con efficacia lo sfruttamento quasi senza scrupoli del suo entourage o di parte di esso, i sentimenti ambivalenti di un Olivier che l'amava e la disprezzava (come attrice e come donna) allo stesso tempo.
E, attraverso la storia intima e gentile dell'innamoramento prevedibile e inevitabile del giovane Clark, Marilyn restituisce con ovattata metafora l'ascendente e la seduzione che le star hanno sul loro pubblico e il senso tutto del divismo e della sua storia.
Poi possiamo parlare per ore della rigidità della regia di Curtis o delle tante retoriche del biopic che a tratti emergono, ma sarebbe come guardare il dito invece della luna.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival