The Tragedy of Macbeth, la recensione: Joel Coen goes solo, tra forma e sostanza
Quest'adattamento shakespeariano è un film di enorme ricerca formale, che sublima nella superficie il suo contenuto. Recitazione a livelli altissimi: domina un Denzel Washington maestoso, ma rubare film e sguardo è la veterana del palcoscenico Kathryn Hunter.
Il Macbeth (occhio all’accento, please, è Macbèth, e non Màcbeth) più o meno lo sappiamo tutti. Il cinema di Joel Coen, all’incirca, pure.
Allora non dovrebbe sorprendere che Joel, alla sua prima prova solista senza il fratello Ethan, in tutt’altre faccende affaccendato, sia andato nella direzione in cui è andato: una direzione, cioè, tutta di forma, perché innovare il testo di Shakespeare in fondo non era cosa, e perché così si può anche segnare una bella cesura con quello che si è fatto prima, fino a quel momento. Purtuttavia, va detto, mantenendo una certa qual idea geometrica delle immagini e della storia che i Coen, insieme, hanno sempre avuto eccome.
Ecco allora che The Tragedy of Macbeth, che da noi diventa semplicemente Macbeth, è un film tutto chiuso in un formato 1:33 (o 4:3 che dir si voglia), tutto girato in un bianco e nero digitale nitidissimo anche quando si riempie di nebbie e incertezze, tutto costruito su un’astrazione assoluta della messa in scena, delle scenografie, del sonoro (che gioca, si badi, una parte fondamentale nel film).
Dai nebbiosi cambi di battaglia non più in battaglia, dove Macbeth incontra il suo destino sotto forma di tre streghe, si passa in un castello metafisico, dechirichiano, dall’architettura modernista tutta linee nette e cementi e assenza di decorazioni dentro alla quale rimbombano passi, gocce d’acqua o di sangue, urla a squarciagola, sussurri secretivi e sentimenti passionali.
La forma è sostanza, e Joel Coen l’ha sempre saputo benissimo. Lo sapeva quando il cinema lo faceva con Ethan, lo sa ancora adesso, e anche di più. Lì dove nel cinema forma e sostanza convergono in un’unica direzione, ancora più che altrove, è la recitazione. Recitazione che è teatro, e teatro è Shakespeare. Ecco che tutto, quindi torna.
Non che Joel Coen i suoi attori, prima, li avesse scelti e diretti male, tutt’altro: ma qui, nel mezzo di quelle scenografie metafisiche, rimbombano anche e soprattutto le parole degli attori. Quelle di Shakespeare messe in bocca agli attori. E che attori, quindi, ha voluto Joel Coen, e come li ha diretti, e come si sono espressi, loro.
Vien quasi da domandarsi se Denzel Washington, che qui è Macbeth, che qui è colossale, monumentale, sarebbe considerato un attore ancora più grande di quel che normalmente viene considerato essere se non avesse indulto così spesso alla sua passione per certi filmacci (e dico filmacci con amorevole e consapevole rispetto per il genere in tutte le sue declinazioni) che han spesso fatto storcere la bocca ai cinefili più intransigenti.
Ma oltre e più che di Washington, e ovviamente di Frances McDormand e - ne cito solo uno ancora per tutti - di Alex Hassell, il Macbeth di Joel Coen, dal punto di vista della recitazione, ma anche da quello dell’immagine, appartiene a Kathryn Hunter, veterana dei palcoscenici inglesi che il regista ha voluto nel ruolo della strega, delle streghe.
Quando appare, Kathryn Hunter, si porta via tutto: l’attenzione, lo stupore, il terrore, l'inquietudine, la meraviglia. Si porta via il film, per sospingerlo in avanti e più in alto. Si porta via il cinema, lo incarna, ce lo restituisce.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival