Luce, la recensione: un thriller d'autore alla scoperta di zone d'ombra tra coscienza e incoscienza

15 gennaio 2025
3.5 di 5
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Arriva al cinema il nuovo film di finzione della coppia di registi di Il Cratere. Un film misterioso e ambiguo, fatto di fantasmi e di desiderio. La recensione di Luce di Federico Gironi.

Luce, la recensione: un thriller d'autore alla scoperta di zone d'ombra tra coscienza e incoscienza

È notte e la protagonista senza nome che ha il volto spigoloso di Marianna Fontana è intenta a fissare, con l'aiuto di un amico, un telefonino a un drone. Assieme al telefono, un biglietto sul quale - forse - c’è scritto “tua figlia”. I due armeggiano silenziosamente, la loro è evidentemente un’operazione clandestina. Poi il drone decolla, prende quota, e noi vediamo la protagonista del film, di spalle, di fronte a un muro immerso nella notte, col drone che lo supera. Cosa c’è dietro a quel muro? Chi c’è? Il cartello che recita “Zona militare limite invalicabile” conta qualcosa o no? Non lo sappiamo, magari non importa nemmeno. Quel che importa è che su quell’immagine, così notturna, così oscura, appaia il logo titolo del film: Luce. Importa che poco prima il pilota del drone, in auto avesse detto una frase tanto casuale quanto fondamentale: “I desideri sono meglio delle promesse”.
Perché di questo parlano, Silvia Luzi e Luca Bellino: di desiderio.
Del desiderio della loro protagonista, quello di parlare con un padre lontano, forse in prigione, forse fuggito. Forse quello che poi la chiamerà dal telefono trasportato dal drone.

La profondità di campo è bassa, bassissima, la macchina da presa attaccata al volto di Fontana, quasi ossessionata dalle sue geometrie esteriori, almeno quanto da quelle interiori. Perché quando il telefono inizia a suonare, e una voce maschile a parlare, tutto è misterioso, tutto è indistinto, sfocato come gli ambienti in cui si muove la protagonista. E nessuno vuole dirci, né forse può dirci, se quella voce sia reale - una voce umana, in tutti i sensi - o se si tratta solo del desiderio di una ragazza di sentire qualcosa, di parlare con qualcuno, di immaginare un genitore.
Così come il titolo Luce cortocircuitava con l’oscurità sulla quale si stagliava, Luzi e Bellino fanno chiaramente riferimento alla loro esperienza di documentaristi (nello stile, ma anche nelle descrizioni implicite della fabbrica dove lavora la protagonista, coi meccanismi e coi rapporti) per girare un film che meno documentarista non potrebbe essere, così impegnato com’è a parlare di fantasmi, fantasie e desideri.

In questa personalissima e ambiziosa rilettura autoriale e esistenziale del thriller, l’ossessione è per l’altrove, per il simbolo, per le zone di confine. Quella tra il reale e l’irreale, prima di tutto, certamente. Magari, dal lato di chi guarda, anche tra comprensione e oscurità, fatica e fascino, ermetismo e formalismo. Ma, per quanto riguarda la protagonista, anche quelle tra il sé e gli altri, tra un’età e un’altra, tra l’indeterminatezza e la consapevolezza di sé. Tra coscienza e incoscienza.
Perché alla fine dei conti, reali o irreali, le conversazioni della protagonista con quello che forse è suo padre, forse no, forse è solo la sua immaginazione, la costringeranno a aprire gli occhi. Sugli altri, sul mondo, ma soprattutto su di sé. A riconoscersi per quella che è.
Su uno schermo, guarda un po’.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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