Logan: recensione dell'ultima volta di Hugh Jackman negli artigli di Wolverine
Mai così feroce e doloroso il mutante, in un film memorabile e toccante.
Un personaggio tormentato lo è sempre stato. Tormentato dalla discriminazione nei confronti dei mutanti, dagli esperimenti di cui è stato cavia, da quel potere capace di renderlo pressoché immortale. Ma il tormento più grande alla fine risiede là, a quel tavolo dove i conti si fanno con se stessi. Non soltanto in senso figurato. Il più grande nemico di Wolverine è la sua natura, non saper reagire al dolore se non con violenza o distacco, l'esilio volontario da qualunque forma di affetto. Una sofferenza costante e molto umana, un dolore interiore non cicatrizzabile in netto contrasto con il dono (o condanna) dell'autoguarigione corporea.
Logan arriva per completare l'arco narrativo del Wolverine di Hugh Jackman, dopo otto apparizioni cinematografiche in diciassette anni. Con prepotenza il film fa impallidire qualunque altro blockbuster di supereroi girato fino ad oggi, andando a competere unicamente col Cavalierie Oscuro di Christopher Nolan. Già dalla prima battuta (“fuck”) della furiosa scena di apertura (carneficina di delinquenti latinos) si presenta come qualcosa di molto lontano dal mondo cinematografico degli X-Men, su un altro pianeta anche rispetto allo standard del genere cinecomic. Si rivolge esclusivamente a un pubblico adulto il cui stomaco deve essere pronto a digerire morti violente, teste trafitte quando non decapitate e declino psicofisico del protagonista, di colui che un tempo era un leader e oggi è un alcolizzato votato all'autodistruzione.
Il film di James Mangold ha un'anima nella quale Wolverine si specchia e appare come avrebbe dovuto essere fin dalla prima volta. Hugh Jackman è straordinario e mai come in questa circostanza è riuscito a dare al personaggio tanta profondità emotiva. È un ruvido animale, umano e mutante contemporaneamente, è un brutale assassino che diventa scudo per proteggere l'anziano Charles Xavier come se fosse un padre e la piccola messicana Laura come se fosse una figlia. Per questi due personaggi giustizia è resa altrettanto bene grazie alla toccante interpretazione di Patrick Stewart e all'impressionante esordio al cinema dell'undicenne Dafne Keen. Un esordio censurabile ai suoi stessi occhi.
Scorre molto sangue in Logan, insieme ai temi maturi che la storia non ha paura di affrontare, peraltro senza alcuna retorica. Il valore della famiglia, la vecchiaia, il rapporto pseudo-genitoriale, l’illusione di chi ha un futuro davanti a sé e l'irritazione di chi ne ha subite troppe per credere ancora in qualcosa. Le diversità razziali sono alla base dei fumetti e dei film degli X-Men e Logan non fa differenza. La storia, concepita da Mangold due anni fa, inizia a El Paso e racconta di uomini da sempre braccati perché diversi, in fuga con una ragazzina messicana e ricercati da un'elite di poliziotti bianchi. Se si pensa alle parole dell’attuale governo degli Stati Uniti sulla questione razziale, ci si domanda perché la realtà voglia così tenacemente assomigliare alla fantasia catastrofista di questi autori monelli.
Il regista, e co-sceneggiatore, ambienta il film in un futuro distopico. Prendendo in prestito qualcosa da Mad Max, da The Road e da Il cavaliere della valle solitaria, realizza un western moderno che afferra la tensione per il bavero e la tiene alta fino alla fine. Logan, Xavier e Laura non hanno mai pace e quando è concessa una tregua alla fuga verso Nord, la polvere non fa in tempo a depositarsi intorno a loro. Le numerose sequenze d'azione si avvalgono di una grande coreografia e dello stretto necessario per gli interventi in computer grafica. L'efferatezza è ovunque e assicura un grande intrattenimento ma, ancora una volta, sono i personaggi e quel doloroso e soave senso di compiutezza generale a lasciare una traccia nella memoria emotiva.
- Giornalista cinematografico
- Copywriter e autore di format TV/Web