Leatherface: la recensione del prequel di Non aprite quella porta
Racconta le origini di Faccia di cuoio il film diretto dai francesi Alexandre Bustillo e Julien Maury.
Più passano gli anni, più è evidente il carattere di fenomeno irripetibile e senza precedenti del new horror americano, in cui una generazione di registi intellettuali si servì del genere per raccontare il tempo in cui vivevano e dar voce alla pancia del Paese, alla ribellione giovanile contro un sistema che mandava la sua meglio gioventù a morire e uccidere nelle risaie e lasciava in povertà ampie fasce della popolazione. Registi come Wes Craven, George A. Romero, John Carpenter e Tobe Hooper reinventarono e perfezionarono i meccanismi di un genere trasgressivo e sperimentale, realizzando film letteralmente impregnati degli umori di un'epoca caratterizzata dalle lotte violente per i diritti civili e dal risveglio di una coscienza sociale che smascherava tutte le bugie di una generazione asservita al capitalismo. Erano registi che avevano letto, studiato, vissuto, respirato quell'aria, si erano drogati e avevano partecipato a quei movimenti e il loro cinema parlava a tutti coloro che non si sentivano rappresentati da Hollywood.
Ciò detto, non è facile per il critico che con quei film è cresciuto, accostarsi a cuor leggero ai prequel, reboot e sequel di quei classici. Pur rendendoci conto che non c'è da parte dei registi a cui vengono commissionati alcuna pretesa di avvicinarsi ai risultati e al senso degli originali, non è sempre facile riuscire a mantenere la giusta obiettività. Uno dei punti dolenti di queste ormai inevitabili operazioni è proprio il concetto di origin story, la volontà di spiegare quello che c'era "prima di", perché il mostro che conosciamo (e, sadicamente, amiamo) sia diventato tale. In linea di massima, pensiamo che una figura che si è imposta nell'immaginario collettivo in un certo modo non abbia bisogno di essere spiegata: anzi, il mistero alimentato dalla nostra immaginazione ne accresce il fascino. I registi degli anni Settanta non fornivano spiegazioni perché non c'era alcun bisogno di farlo, perché non sottovalutavano mai gli spettatori dei loro film.
Ma se proprio si vuole raccontare il perché e il percome della nascita di un mostro, non è impossibile farlo bene, anche se è più facile farlo coi tempi di una serie tv come ha dimostrato in modo esemplare Bates Motel, che ha saputo essere al tempo stesso rispettoso, trasgressivo ed efficace nel raccontarci l'origine della psicopatia di Norman Bates. O come Ash vs Evil Dead, che ha espanso al massimo l'universo originale esaltandone l'ironia e innalzando la scoglia del disgusto con abbondanza di fluidi corporei. Quando però per farlo si hanno soltanto i classici 90 minuti, il rischio della banalità è molto alto. Se già non convincevano i due Halloween di Rob Zombie , Leatherface, ottavo film della saga iniziata da Tobe Hooper, va ancora oltre, mostrandoci il protagonista prima bambino e poi adolescente.
Nel preambolo fa già la sua comparsa, senza alcuna logica narrativa, l'iconico oggetto di morte del carnefice con la maschera di pelle umana. Un imprinting tardivo e poco motivato per il piccolo della famiglia di macellai cannibali Sawyer, che nel film di Hooper conoscevamo già mostruoso e incapace di parlare, se non con una motosega perennemente “in erezione”. Bustillo e Maury fanno un buon lavoro e dimostrano la loro predilezione per le scene gore realizzate in modo artigianale, ma per poter apprezzare il film, girato a basso budget in Bulgaria (una location discretamente lontana dal Texas), è meglio non aver mai visto o aver dimenticato l'originale.
Lo sceneggiatore Seth M. Sherwood devia dalla geniale idea di Hooper di un nucleo famigliare interamente al maschile, che si vendica della perdita del lavoro e dello status sociale cannibalizzando le carni di giovani vittime, con l'inserimento di una figura materna malvagia ma abbozzata in modo superficiale (dispiace vedere un'attrice dal passato di Lily Taylor palesemente spaesata in un film del genere). Accumula poi luoghi, personaggi e situazioni già visti (e migliori) altrove: il manicomio, i medici sadici, l'infermiera carina, la coppia psicopatica alla Natural Born Killers, scene che ricordano Hannibal e l'epopea di American Horror Story. E' come se, nel tentativo di non rifare un film impossibile da replicare, gli autori avessero cercato di confondere le acque, finendo per perdere di vista la logica interna della stessa storia che hanno deciso di raccontare.
L'idea migliore è la confusione che per un po' si crea su chi sarà, tra i giovani fuggiti dal manicomio, il futuro Leatherface. Quando però lo vediamo nascere, la sua (veloce) trasformazione non è epica e non produce il brivido che dava la danza selvaggia del personaggio al tramonto nel primo film di Tobe Hooper. E' vero che, dato lo standard degli horror attuali, poteva anche andare peggio e forse qualcuno ci giudicherà troppo severi. Probabilmente è una questione generazionale: nel film ci sono abbastanza sangue e azione da accontentare il pubblico più giovane, ma per noi che non lo siamo più da tempo, resta un solo, unico e possibile Leatherface.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità