Le due vie del destino: la recensione del film con Nicole Kidman e Colin Firth

10 settembre 2014
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Un film old-fashion che omaggia David Lean e invita al perdono.

Le due vie del destino: la recensione del film con Nicole Kidman e Colin Firth

C'era una volta, nel lontano 1942, nell'afosa giungla thailandese, una linea ferroviaria alla cui costruzione lavoravano prigionieri alleati e asiatici e che avrebbe dovuto unire la Thailandia alla Birmania.
La chiamavano “la Ferrovia della morte” perché per il troppo sforzo, le punizioni corporali dei giapponesi e la scarsa quantità di cibo giornaliero, molti di quelli che vi lavoravano persero orribilmente la vita....
Un momento! Ma noi questa storia l'abbiamo già sentita, anzi l'abbiamo vista nel celeberrimo Ponte sul fiume Kwai, film da sette statuette diretto, nel 1958, da David Lean!

E' vero, ma non c'è niente di male a ripercorrere uno degli episodi più devastanti della Seconda Guerra Mondiale, soprattutto se a farlo è un filmmaker che rende  dichiaratamente omaggio al regista inglese, ricordandone perfino il delicato Breve incontro.
La citazione di quest'ultimo, che è un film incentrato su un amore nato fra treni e binari, non è casuale, visto che il protagonista del nostro film è un uomo che se ne intende di rotaie, vagoni e orari, e che proprio in uno scompartimento incontra la donna dei suoi sogni.
A differenza del medico nato dalla fantasia di Noël Coward, stavolta il protagonista viene ostacolato non da due matrimoni, ma dai fantasmi del passato, che lo precipitano nella classica sindrome post-traumatica da stress.

A Jonathan Teplitzky importa fino a un certo punto che questo reduce – di nome Eric Lomax – sia esistito per davvero e abbia scritto della sua disavventura in un'autobiografia.
A solleticare la creatività del regista australiano è piuttosto la morale della storia, il suo messaggio, che potremmo riassumere così: la guerra è stupida, la vita va rispettata e il perdono, per quanto difficile, guarisce più della vendetta.

Ora, questa lezione, importante anche se un po' scontata, arriva sfortunatamente solo nelle bellissime scene finali, e questo perché, pur traendo vantaggio da un'ottima fotografia che rende le scene presso lo scavo di Konyu Cutting di grande potenza visiva, Le due vie del destino non sa decidersi se essere una love story con tanto di salvatrice in stile Florence Nightingale, un dramma bellico, una survivor story, un melò, un racconto epico.
Il mix di generi in sé non sarebbe sbagliato, se soltanto a ogni affresco fosse stata data qualche pennellata in più.
Invece, alcune sequenze non sono abbastanza incisive, e se proprio dobbiamo scegliere fra il grigio presente di Mr. e Mrs. Lomax e il passato di quest'ultimo, la nostra preferenza va al secondo, emotivamente più coinvolgente.
Quanto al primo, sembra devolvere la sua efficacia e il suo pathos interamente all'abilità del nostro amato Colin Firth di lavorare di sottrazione, puntando sugli sguardi e sul non detto.

L'attore, capace come pochi di incarnare l'irrequietezza malinconica di un animo umano segnato dal dolore o dal senso di inadeguatezza, sembra qui in difficoltà di fronte alla rappresentazione di scontrosità, rabbia repressa e ansia di risarcimento, e il coltello che a un certo punto afferra per farsi giustizia non riesce a togliergli quell'aria così per bene che lo rende perfetto per commedie traboccanti di humour britannico, film intimisti, storie di re e regine.
Più a suo agio è Nicole Kidman, che ben padroneggia tenerezza, amore incondizionato e pietà cristiana.

E' da vedere Le due vie del destino?
Certo che è da vedere, meglio se in versione originale.
Lo consigliamo a chi ama gli amori quieti ma difficili, le catarsi e le romantiche vicende old fashion, e a chi è curioso di scoprire se fra i due premi Oscar ci sia la necessaria e imprescindibile “chimica”.

 



  • Giornalista specializzata in interviste
  • Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali
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