Labyrinth - Dove tutto è possibile, la recensione del cult di Jim Henson
Jim Henson, il creatore dei Muppet, diresse Jennifer Connelly e David Bowie nell'unico e inimitabile Labyrinth.
Appassionata di teatro e mondi fiabeschi, la sedicenne Sarah (Jennifer Connelly) non accetta proprio l'idea di rimanere confinata a casa, a badare al fratellino in culla Toby. Per scherzo ed esasperazione, invoca il Re degli Goblin affinché se lo porti via... e succede sul serio. Il mefistofelico Jareth (David Bowie) le sottrae Toby, ma divertito le propone una sfida: potrà salvarlo se affronterà le prove del suo Labirinto, in un mondo fantastico fatto di amici e nemici.
Labyrinth - Dove tutto è possibile, terzo e ultimo lungometraggio cinematografico di Jim Henson, creatore dei Muppet, è diventato un cult solo col passare dei decenni: per chiunque si commuova ricordandone anche solo un fotogramma, è difficile credere che nel 1986 alla sua uscita sia stato un flop sonoro da 14 milioni di dollari d'incassi nel mondo, per 25 di costo! Forse perché nasceva con contributi e ispirazioni etereogenee, difficilmente comunicabili dal marketing? E se fosse proprio quello il segreto del suo fascino imperituro?
Henson, coautore del soggetto con Dennis Lee, ci infuse la sua allegria goliardica da burattinaio e la sua fascinazione per il fantasy (qui leggermente più solare che in The Dark Crystal). George Lucas, da executive producer con la sua Lucasfilm, ci credette probabilmente affascinato dalla sfida che l'ha sempre animato, cioè la creazione di un mondo. Terry Jones, compianto ex dei Monty Python, vi regalò la sua smisurata cultura intrisa di ironia, costruendo la sceneggiatura come un'intelligente rivisitazione della letteratura fiabesca anglosassone (Alice e Il Mago di Oz, su tutti). Ciliegina sulla torta, David Bowie attraversò il film in modo sfacciatamente autoreferenziale, riempiendolo di canzoni indimenticabili e scherzando su se stesso in modo abbastanza incredibile, nel contesto: avrete notato che canta usando il bastone come microfono.
Come mai tutto questo frullato di cervelli geniali e diversi (per estrazione, cultura e percorsi) non produce un'opera inguardabile? Non sono i momenti camp del cinema anni Ottanta che vanno rimpianti: quello che si rimpiange, guardando anche Labyrinth, era una straordinaria volontà di conciliare con il cinema di genere le individualità artistiche delle persone coinvolte. Era la rivoluzione di Lucas e Spielberg al suo meglio, che indirettamente consentì anche follie al botteghino autodistruttive come Blade Runner. Film che spiazzavano il pubblico all'uscita, solo perché erano esperimenti di alchimia cinematografica il cui valore sarebbe fermentato nei decenni.
Non è la connessione con una tecnica ormai invecchiata che dovete cercare in Labyrinth: dovete lasciare che l'entusiasmo dei centinaia di artigiani che l'hanno realizzato vi contagi, con una fisicità che nell'epoca della CGI abbiamo dimenticato. E' qui che Henson chiede sul serio di tornare bambini, pronti a essere ingenuamente intrattenuti da una finzione così spudorata da risultare più vera di qualsiasi simulazione. Il legame vero è con chi la produce e con il suo calore. Sir Didimus è inquadrato quasi sempre dalla vita in su, perché sotto c'è qualcuno che lo muove con il braccio? Chiaro. Bubo nasconde due persone che a stento si mantengono in equilibrio? Beh, intuibile. Gogol è un mimo nano travestito? Che sorpresa. E' una meravigliosa maturità stare al gioco.
Anche perché Sarah, una Jennifer Connelly già affascinante per chi le era coetaneo al momento della visione, è una a cui piace giocare. E gioco sia, pronto però a diventare incubo se sostituito del tutto alla realtà: fantasia sì, alienazione e rifiuto degli affetti no. Nella morale si fondono così i picchi onirici gotici carrolliani con la migliore saggezza resa poi patrimonio culturale comune oggi dalla Pixar. La scena della festa nella bolla è inquietante, come lo è l'esplosione ormonale di quell'età, amplificata dalla voce di Bowie sulla sua meravigliosa "As the Word Falls Down". E non ci si deve quindi sorprendere se sgorga qualche lacrima nel finale, dove Sarah, messa di fronte alla crescita, esprime piangendo una necessità che, ci dicono Henson, Jones, Bowie e Lucas, il cinema fatto con slancio è prontissimo a colmare. "Senza apparenti ragioni."
- Giornalista specializzato in audiovisivi
- Autore di "La stirpe di Topolino"