La verità negata: la recensione del dramma processuale sull'Olocausto con Rachel Weisz
Scontro con in negazionista David Irving con Timothy Spall e Tom Wilkinson.
L’Olocausto è stato raccontato decine di volte al cinema. In tutti i modi, dalla memoria personale al thriller. Nel caso de La verità negata, nuovo film di Mick Jackson, regista dei ben diversi Guardia del corpo e Volcano, la tematica è affrontata attraverso una vicenda processuale con protagonista il negazionista David Irving. Ma non è lui l’accusato, contrariamente a quanto sarebbe ragionevole pensare e in altre circostanze accaduto, ma la storica americana Deborah E. Lipstadt, accusata da Irving di diffamazione per quanto scritto in un suo saggio. Una vicenda che riporta a metà degli anni 90, al libro Denial: Holocaust History on Trial scritto dalla stessa Lipstadt, titolare della cattedra di Studi sull’Olocausto alla Emory University di Atlanta.
Costretta dalla legislazione britannica a sostenere l’onere della prova, si affidò a un team legale capeggiato dall’avvocato Richard Rampton, intepretato mirabilmente da Tom Wilkinson, avvalendosi come testimoni di storici del valore di Richard J. Evans e Christopher Browning. Insomma, furono costretti a dimostrare l’apparentemente ovvio: la realtà storica dell’Olocausto. Uno scontro in punta di diritto, in cui la Lipstadt dovette farsi da parte, accettando di tenere fuori dalle aule come testimoni i sopravvissuti dei campi di concentramento. Le persone furono accantonate, lasciando spazio a dettagli ed esami scientifici dei resti di quella Auschwitz, “al centro dell’Olocausto e quindi anche del negazionismo”.
“La chiave era come provare, non cosa provare”, per usare le parole dell’avvocato Rampton. Proprio lui, in realtà, è il cuore del film, nel suo dualismo con David Irving, che scelse di difendersi da solo. La verità negata è un’analisi sul potere delle parole, sulla valutazione delle stesse e sulla ricerca di una verità oggettiva: storica prima che processuale. In una società già indirizzata verso la dittatura comunicativa dello slogan, del claim, risaltano le parrucche finte, le aule di legno antico e le notti passate ad esaminare documenti, rigorosamente cartacei.
Come reagire con razionalità di fronte a chi nega l’evidenza, a chi scrive e dice che “non ci furono camere a gas ad Auschwitz?”. Fino a che punto è tollerabile accettare che venga detta qualsiasi palese menzogna, col rischio di perdere ogni riferimento oggettivo e ogni certezza storica, in nome di una “perversione della verità” nobilitata dall’etichetta di libertà d’espressione? Sono tanti e di grande interesse gli interrogativi suscitati dal film, scritto con la consueta maestria da David Hare, sempre a suo agio nelle ricostruzioni storiche, quando non nell’analisi del ruolo stesso della storia. Rachel Weisz è tenace al punto giusto nei panni della Lipstadt, mentre sensazionale è il David Irving impersonificato da Timothy Spall, dimagrito e scavato. La figura tragica di un uomo pateticamente in lotta alla ricerca della considerazione dell'Accademia.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito