La talpa - recensione del film di Tomas Alfredson

10 gennaio 2012
4.5 di 5
4

Le cose, spesso, non sono quello che sembrano. Nel mondo dello spionaggio più che mai. La verità è nascosta sotto strati e strati di differenti versioni, punti di vista, deviazioni. E, lo dice anche il personaggio interpretato in questo La talpa da Mark Strong




Le cose, spesso, non sono quello che sembrano. Nel mondo dello spionaggio più che mai. La verità è nascosta sotto strati e strati di differenti versioni, punti di vista, deviazioni. E, lo dice anche il personaggio interpretato in questo La talpa da Mark Strong, la capacità di osservare è la caratteristica primaria ad una spia.
Allora, forse, una spia non è tanto diversa da un critico cinematografico. Perché, come tutti i film e ancor di più, questa prima fatica in lingua inglese di Tomas Alfredson richiede capacità di osservazione e di cogliere i dettagli per essere apprezzato in tutta la sua immota dirompenza. Nella sua placida ma straordinaria energia, che lo rendono quasi un esercizio zen.

Basterebbe infatti ciò che è evidente sotto gli occhi di tutti a fare de
La talpa un film di altissimo livello, esempio limpido, rigoroso ed elegante di tecnica cinematografica in senso ampio e totale.
Sono impeccabili la precisione della scrittura, la qualità della regia, la cura quasi maniacale di costumi e scenografia, l'impressionante livello della recitazione di un cast composto da molti dei nomi di maggior rilievo della scuola recitativa migliore del mondo, quella britannica.
E tutti questi elementi, sapientemente combinati, contribuiscono a fare di quello dello svedese uno dei migliori spy movie di sempre, un film che pare uscito di peso dagli anni Settanta che racconta: con tutto quello che questo comporta.

Ma, fermo restando sia legittimo limitarsi al godimento estetico e narrativo che il film garantisce, sarebbe un peccato non cogliere che, se con
Lasciami entrare Tomas Alfredson aveva solo mascherato da horror una storia intima e delicata, ne La talpa abbraccia il genere fino in fondo, lasciando però che ciò che gli sta veramente a cuore serpeggi nervoso, fremente e intenso sotto una superficie imperturbabile e un andamento scadenzato e preciso. Che, tutt’altro che lento e freddo, il film covi un'energia emotiva bruciante sotto le ceneri della forma e della compassatezza.
Non sono difatti tanto le strategie e i delicati equilibri dello spionaggio, a interessare Alfredson, ma quelli dei legami umani e del cuore; non i doppiogiochi o i tradimenti di patria o ideologia ma quelli dei sentimenti.

Che la forza potente di questi aspetti, vero motore delle vicende, risulti quasi invisibile ed emerga attraverso piccoli movimenti, quasi impercettibili scarti di regia, accenni appena suggeriti e mimetizzati dal contesto, è solo un altro motivo di merito per
Tomas Alfredson, forse il principale.
Così come nelle stesse dinamiche risiede il motivo che rende quella del protagonista Gary Oldman la migliore interpretazione di tutto il film: apparentemente immoto e monocorde, Oldman riempie di vita il personaggio di George Smiley grazie a sfumature e dettagli, e piccole alzate di tono tanto rapide a rientrare da sembrare quasi impercettibili.

Ne
La talpa le passioni sono tanto più forti quanto meno vengono mostrare, come una spia, tanto più brava quanto più invisibile. E Tomas Alfredson lo conferma con una scelta che solo un regista della sua caratura poteva concedersi: con la lieve rottura di un finale che, sulle note di "La mer", tinge di improvvisa e apparentemente leggera ironia un finale che è assai più teso e disincantato di quanto non appaia.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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