La resistenza dell'aria: recensione del thriller con Reda Kateb e Ludivine Sagnier

11 marzo 2020
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Una coppia segnata da una crisi economica in una grigia periferia parigina in cui la tentazione di una scelta facile sconvolge le loro vite.

La resistenza dell'aria: recensione del thriller con Reda Kateb e Ludivine Sagnier

È grigia la fotografia de La resistenza dell’aria, com’è grigia la vita quotidiana di Vincent (Reda Kateb), campione di tiro sportivo frustato da una condizione economica sempre in difficoltà, nonostante il tentativo di far costruire una casa nuova, su un terreno di campagna; forse un passo eccessivo visto che ora i soldi sono finiti e i costruttori fermano i lavori, minacciando di tirar giù tutto nel caso in cui non vengano pagati gli arretrati. È grigia anche la realtà dell’estrema periferia di Parigi in cui Vincent vive con la moglie Delphine, Ludivine Sagnier, e la figlia. La routine domestica è diventata una sequela di gesti meccanici, senza più sorrisi, entusiasmo, sesso, con il riferimento della sorella di Delphine, con una situazione economica molto più florida, occasione per frustrazioni costanti da parte di Vincent. Si intuisce un passato in cui i due vivevano con un altro entusiasmo.

C’è solo un momento della giornata in cui Vincent si trova nel suo ambiente, dimostrando le sue qualità e la capacità di mettere a frutto la sua calma: il tiro sportivo. È un campione, l’orgoglio di una squadra della zona e impegnato ad allenarsi per partecipare ai campionati nazionali, per poi rappresentare la Francia all’estero. Il titolo si riferisce proprio al rituale intimo, fatto di concentrazione e studio di ogni agente esterno, che interviene nella dinamica occhio/fucile/bersaglio. La prima rottura della precaria quotidianità arriva con l’obbligo di prendere in casa il padre malato di Vincent, non più autonomo, ma pur sempre capace di confermare il suo pessimo carattere e il motivo per cui non ha mai veramente fatto parte della loro vita familiare. Una maschera, ben interpretata da Tchéky Karyo.

È però con l’irruzione di un amico improvvisato, il seducente e misterioso Renaud, che la vita di Vincent sarà definitivamente sconvolta. Dopo un breve “corteggiamento”, infatti, gli porterà una rapida soluzione a tutti i suoi problemi, la possibilità di superare tutti i suoi errori semplicemente facendo quello che gli riesce meglio: sparare a un obiettivo, centrandolo in pieno. La scorciatoia criminale cambierà tutto, come una dose di cocaina dritta al cuore, con Vincent che sembra un’altra persona, sicura di sé, decisa, con la moglie che sembra di nuovo sedotta da un uomo in grado di mostrare una nuova virilità. Ma come per ogni droga, con il tempo arriva l’assuefazione e ai momenti di up seguono quelli di down.

L’esordio di Fred Grivois, collaboratore ai Jacques Audiard, parte con un ritmo a dir poco basso, è cupo e insapore per almeno una mezz’ora. Nel chiaro tentativo di creare l’atmosfera declinante di un equilibrio pronto a rompersi si fa prendere un po’ troppo la mano, rischiando di perdere l’attenzione dello spettatore prima della prima sgassata narrativa, che arriva allo scoccare del secondo terzo, come da manuale di sceneggiatura. A proposito di scrittura del film, le suggestioni audardiane sono confermate dalla firma di Thomas Bidegain, uno degli sceneggiatori di Audiard, che aveva già lavorato con Grivois in Un profeta, film nel quale muoveva i primi passi anche Reda Kateb, qui protagonista assoluto. Proprio grazie a lui, alla sua intensità sempre presente e umana, alcuni momenti sono recepiti senza cedere alla noia. Ma del resto lo conosciamo ormai bene, si tratta di uno dei migliori attori europei della sua generazione.



  • critico e giornalista cinematografico
  • intervistatore seriale non pentito
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