La prima neve - la recensione del film di Andrea Segre

06 settembre 2013
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Padri, madri, figli. È di questo che parla La prima neve, seconda incursione di Andrea Segre nel cinema “di finzione” dopo il grande successo di Io sono Li.

La prima neve - la recensione del film di Andrea Segre

Padri, madri, figli. È di questo che parla La prima neve, seconda incursione di Andrea Segre nel cinema “di finzione” dopo il grande successo di Io sono Li. Parla dell’eredità pesante del passato, del valico aspro che conduce al futuro, di vuoti da riempire, asperità da livellare, case da trovare e costruire.
La prima neve parla dell’oggi, e non c’è nessuno scandalo nel fatto che l’oggi sia costituito dalla sovrapposizione inevitabile e necessaria tra gli aspetti più tradizionali della cultura italiana, come quelli legati ad una famiglia che vive in una sperduta valle del Trentino, e quelli più instabili di un migrante dei nostri giorni, un immigrato sopravvissuto (male) al trauma dei barconi che nonostante tutto ancora non sa quale sia la sua nuova casa.

In una Val dei Moicheni che la cinepresa di Luca Bigazzi fotografa esaltandone, in maniera quasi impossibile, la notevole bellezza naturale, Segre fa incontrare Dani, che ha lasciato il Togo e perso la moglie, che non è capace di fare il padre della figlia di un anno per il troppo dolore e sogna Parigi, e Michele, 11enne ferito dalla morte del padre e lacerato negli affetti per il nonno falegname e apicultore e la madre affettuosa ma goffa, mentre le tentazioni dell’adolescenza lo adulano senza troppa convinzione. Sono loro due i pezzi principali di un puzzle di personaggi che, prevedibilmente, senza scossoni, con il passo regolare e cadenzato del montanaro, troverà composizione e armonia, rivelando la figura di una casa che è quella del cuore e degli affetti.
Due pezzi principali che s’incastrano comprendendo le asperità dell’uno nelle depressioni dolorose dell’altro.

Questo incastro, prevedibile, ovvio, Segre non lo forza mai. Lascia che i pezzi che sparge sul tavolo in apertura di film si studino fra loro mentre gli spettatori li osservano filtrati da una regia partecipe ma non invadente, che guarda e riporta mantenendo una distanza di sicurezza che impedisce al melò di sbracare, di abbandonarsi al cinema del dolore, alla retorica sull’immigrazione così come a quella sulle piccole comunità.
Lascia che si avvicinino progressivamente nel nome delle polarità opposte e comple(le)mentari che si attraggono e che caratterizzano tutto il film: il bianco e il nero, il mare e la montagna, l’adulto e il bambino, il passato e il futuro.
Le radici ben piantate nel terreno e i rami che si protendono verso il cielo.

E se Dani impara nuovamente a essere padre, a essere uomo, grazie a un ragazzino, Michele, che deve imparare nuovamente a essere figlio, e uomo anche lui, è perché oggi (come ieri, in realtà) si impara guardando l’altro, il diverso, nel nome di un senso comunitario che va allargato e ridefinito affinché tutti possano essere a casa. Nel cuore e con i piedi.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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