La nave dolce: la recensione del documentario di Daniele Vicari
Con un racconto epico che sposa bene la forma del documentario, Daniele Vicari riflette sul primo respingimento di massa nella storia del nostro paese, confermandosi cineasta attento al reale e alla dignità dell’uomo.
Il 7 agosto del 1991, un mercantile di ritorno da Cuba lasciò il porto di Durazzo e partì alla volta dell’Italia. A guidarlo, un comandante con un cacciavite puntato alla gamba; ad occuparlo, nelle cabine, sul ponte e perfino in cima all’albero maestro, una folla di albanesi accomunati dalla povertà, ma anche dal sogno di una vita nuova in un posto migliore.
Questa storia – la storia della nave Vlora che trasportava solo zucchero e niente acqua – torna a imporsi alla nostra attenzione grazie a Daniele Vicari, regista del rigore, dell’urgenza di raccontare e dell’esigenza di tradurre in immagini la vita più che la verità.
Il suo La nave dolce, che sceglie la forma del documentario, è stato pensato, scritto e realizzato contemporaneamente a Diaz, film di finzione a cui è uguale e contrario.
In comune c’è la moltiplicazione dei punti di vista e la denuncia del collasso dei principi di democrazia, quasi esistesse un fil rouge fra le ingiustizie di Genova e l’indifferenza delle istituzioni del tempo. Di diverso, invece, c’è il respiro della narrazione e l’atteggiamento verso la realtà mostrata.
Si coglie della tenerezza ne La nave dolce: nelle parole degli albanesi intervistati, per esempio, e in quei loro occhi che brillano di eccitazione e stupore mentre si succedono i primi ricordi. Poi il racconto va avanti e, mano a mano che il mercantile si spinge in mare aperto, perde di intimità e si fa epico, rendendo il viaggio di Kledi Kadiu e degli altri passeggeri periglioso come il ritorno di Ulisse.
Purtroppo, come per Ulisse, la disillusione comincia quando si tocca terra: quando i sogni dei migranti si infrangono sulla banchina infuocata del porto di Bari. E allora il film diventa ancora qualcos’altro: un horror in cui l’uomo, rinchiuso in un luogo angusto insieme ai suoi simili, diventa homini lupus.
E’ questa trasformazione che Vicari cerca di filmare, divenendo testimone della perdita del bene più prezioso di ogni essere vivente cosciente di sé, e cioè la dignità. Senza dignità si è come bestie, e nello stadio delle vittorie di Bari, quelle persone, innaffiate con gli idranti e denutrite, sembrano tori impazziti infilzati da toreri.
Sono passati 21 anni da quel giorno, e 18 da Lamerica di Gianni Amelio, che descriveva proprio l’Albania del ‘91 e la sua fascinazione per l’Italia. Sicuramente all’epoca quell’amore ci inorgogliva, mentre adesso, forse, siamo noi che vorremmo andarcene. Ma se un Eldorado ci fosse davvero, saremmo disposti a partire, come i ventimila, con il solo bagaglio della speranza? Perché la speranza è importante e La nave dolce vuole ricordarcelo.
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- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali