La mafia uccide solo d'estate - la recensione del film di Pif
Un buon esordio per il noto giornalista e conduttore televisivo
E' fisiologico: anche nelle città in guerra e sotto assedio, attaccate dal terrorismo o dalla criminalità, si continua a vivere, a innamorarsi, ad andare a scuola. In qualsiasi, drammatica situazione, l'istinto di sopravvivenza induce gli uomini a distogliere lo sguardo, camuffare la realtà sotto le spoglie di una normalità fortemente voluta. Palermo negli anni Settanta e Ottanta era una città dove, nonostante il bollettino quotidiano delle vittime, la gente continuava a vivere una sua quotidianità
E' da questa realtà che prende il titolo il film d'esordio di Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, La mafia uccide solo d'estate. Nel film è il padre a dire questa frase al figlio per tranquillizzarlo, ma è anche l'illusoria certezza in cui molti si sono cullati per troppo tempo: quella che la mafia fosse una specie di fenomeno atmosferico, per difendersi dal quale bastava ignorarlo. Pif apre con una dedica ai caduti giusti di questa guerra, e nella storia del piccolo Arturo ripercorre questi tragici eventi filtrandoli attraverso l'occhio ingenuo di un bambino e quello spesso volutamente tale degli adulti: dalla strage di Viale Lazio del 1969, data in cui viene concepito, alle bombe di Capaci e via D'Amelio nel 1992, passando per l'omicidio del generale Dalla Chiesa e quelli di Boris Giuliano, Pio La Torre e Rocco Chinnici, Pif fa nomi e cognomi dei mandanti e degli esecutori, scrive una storia che non si studia sui libri e che in troppi tendono a dimenticare. Lo fa col candore e con l'umorismo propri di un'intelligenza atipica come la sua, che sa di poter accostare toni e argomenti in apparenza agli antipodi, senza mancare di rispetto a nessuno.
E' così che il suo film diventa il mezzo perfetto per raccontare alle giovani e spesso ignare generazioni la storia di un paese in cui un politico come il Divo, l'"Amico degli amici", poteva diventare l'idolo di un bambino, per dir loro che la mafia in realtà non ha mai guardato in faccia a nessuno, nemici o ex amici, e che per essere eroe "basta" essere determinati a fare bene il proprio lavoro. Un paese e una città in cui la pigrizia e l'ignavia hanno pian piano ceduto il passo all'impegno e alla consapevolezza civile ma dove c'è ancora moltissimo da fare. E' bello che a ricordarci chi erano queste persone sia una commedia, che a pronunciarne i nomi non sia per una volta la piazza ma un mezzo trasversale capace di parlare anche a quelli che non leggono e non si interessano al mondo in cui vivono.
Per questo ci è piaciuta la presentazione nei loro piccoli e umani rituali di personaggi come Boris Giuliano e il giudice Chinnici, ma anche la voglia di scherzare sui Padrini, che non per questo cessano di essere feroci e spietati. Da un punto di vista cinematografico ci ha convinto maggiormente la prima parte, quando Arturo e Flora, l'amore della sua vita, sono ancora bambini. Il passaggio un po' brusco all'età adulta spoglia la vicenda di quella patina favolistica che è l'aspetto migliore della messinscena, fino al finale commosso ma un po' pleonastico, che ne fa l'ideale apertura di un dibattito nelle scuole,
Ma c'è molto colore (e calore) in questo mondo, in cui Pif si aggira con la grazia stralunata di un Pinocchio che scopre la brutta realtà del Paese dei Balocchi, e molto affetto per un periodo in cui si è stati comunque felici. Niente male davvero per un esordio originale, che invece della solita rassicurante commedia sentimentale ha scelto di raccontare una generazione capace di impegnarsi nelle battaglie giuste, ma sempre col sorriso sulle labbra.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità