La Guerra dei Mondi, quando Steven Spielberg ha raccontato la fine della nostra innocenza

28 giugno 2025
4.5 di 5

Rivisto dopo vent'anni, La guerra dei mondi di Steven Spielberg, con Tom Cruise e Dakota Fanning, adattando liberamente il classico di H. G. Wells raccontava la fine della nostra stabilità, dopo lo shock dell'11 settembre.

La Guerra dei Mondi, quando Steven Spielberg ha raccontato la fine della nostra innocenza

L'operaio Ray (Tom Cruise) va incontro a un altro weekend di doveri genitoriali che non ha mai assolto seriamente: tocca a lui ospitare a casa sua Rachel (Dakota Fanning) e Robbie (Justin Chatwin), lasciati a lui controvoglia dall'ex-moglie. Di lì a poche ore tripodi alieni, sepolti sotto la superficie della Terra milioni di anni fa, si attivano per cominciare lo sterminio dell'umanità. E lui non è un eroe: sa solo che, nell'azzeramento della civiltà, sarà definito solo da un senso di responsabilità verso i suoi figli.

Opera rivoluzionaria, "La guerra dei mondi" (1898) di H.G. Wells è considerato uno dei primi veri romanzi di fantascienza, quando la definizione nemmeno esisteva: lontano ancora dagli stilemi del genere, costruiva un'atmosfera inquietante senza veri eroi, di fronte a un'apocalisse che si risolveva grazie a un colpo di fortuna di grande portata simbolica. In ogni caso il senso di impotenza ha segnato due degli adattamenti più famosi del testo: Orson Welles con la sua finta diretta radiofonica del 1938 spaventò la popolazione americana, anticipando il terrore della II Guerra Mondiale che sarebbe pure stato raccontato dalle radio, mentre Byron Haskin virò la minaccia aliena alla paranoia della Guerra Fredda con La guerra dei mondi del 1953. Riprendendo in mano il libro all'indomani dello sconvolgente 11 settembre, Steven Spielberg, insieme agli sceneggiatori Josh Fridman e David Koepp, lo usa ancora come metafora, potenziata tuttavia da un confronto con la sua stessa passata poetica.

Perché è spontaneo, ricordando lo Spielberg che aveva usato la fantascienza come ponte di fiducia verso il prossimo, con E.T. L'extraterrestre e Incontri ravvicinati del terzo tipo, notare il cambio radicale di atmosfera e reazioni in questa Guerra dei mondi del 2005. Sostenere lo sguardo delle manifestazioni aliene non paga più: Ray mostra pure una divertita curiosità davanti ai primi strani fenomeni, quasi un'eco dell'ossessione di Richard Dreyfuss in Incontri, ma la sua stentata vocazione infantile ha il fiato cortissimo, e viene schiacciata da una realtà che non le lascia più spazio. Non a caso Rachel, che bambina lo è davvero, è inerme davanti agli alieni, e coi suoi dieci anni è già vittima di attacchi di panico: l' "altro" non le sorride affatto, ma anzi la considera una preda e la costringe ad assistere precocemente a orrori indicibili. Senza dubbio il crollo delle Twin Towers, avvenuto per mano di terroristi "nascosti" nella normalità, è stato il sipario di un Occidente in equilibrio, che si svegliò sapendo di non poter dare più nulla per assodato. Terribile realizzare che, due mesi dopo l'uscita negli USA di questo film, l'uragano Katrina devastò una parte degli Stati Uniti, creando un far west sociale che qui veniva preconizzato nelle scene dove la vera minaccia è una folla fuori controllo (l'assalto all'auto, la scena del traghetto).

Steven Spielberg non poteva che confrontarsi con l'Apocalisse con la chiave della sua personale apocalisse in miniatura, la famiglia disfunzionale (ce ne avrebbe poi spiegato le ragioni nell'autobiografico The Fabelmans, un paio di decenni dopo). L'insicuro Ray, ben interpretato da Tom Cruise quando sapeva uscire dalla sua comfort zone, è un immaturo che il destino mette di fronte a una situazione assurda, come succedeva al personaggio di Denis Weaver in Duel. In questo caso tuttavia la sconfitta della minaccia non ha proprio nulla a che fare con le sue azioni, e forse è stata proprio questa riduzione della minaccia aliena a puro McGuffin di una storia familiare, a rendere il film meno popolare tra quelli dell'autore. Gli alieni, come nel libro, soccombono perché non si adattano ai batteri terrestri: è la versione più scientifica della punizione divina che spazzava via i nazisti nei Predatori dell'arca perduta, mentre Indiana Jones, come Ray, non poteva influenzare nulla. È una selezione naturale che, più che nel darwinismo di Wells, ha le sue radici in una creazione divina magari non perfetta, ma in grado di generare i necessari anticorpi: fuor di metafora, la società democratica occidentale, dopo lo shock, avrebbe ritrovato il suo equilibrio "naturale", guadagnato dopo anni di civiltà. Ottimismo militante, ma senza chiudere gli occhi davanti alla disperazione: Spielberg era ormai passato dalle sue forche caudine di Schindler's List, che rappresenta uno spartiacque nella sua visione non solo del mezzo cinematografico, ma dell'esistenza.

Vent'anni dopo, La guerra dei mondi spielberghiana rimane un grandissimo spettacolo, che fa collidere lo Spielberg più esteta dei blockbuster con l'immagine più rabbiosa di altri suoi esperimenti (qualche mese dopo sarebbe arrivato in sala il thriller politico Munich). Diverse situazioni di tensione infatti riecheggiano, per movimenti di macchina e scelte di montaggio, il gioco del gatto col topo tra uomini e dinosauri (piccoli o enormi) di Jurassic Park, con un ricorso magistrale ai tipici piani sequenza del regista, non tutti urlati ma sottili nel far crescere la tensione, abbattendo i limiti fisici di ripresa con l'aiuto della CGI, come aveva cominciato a fare il suo amico Robert Zemeckis in Le verità nascoste. La fotografia di Janusz Kaminski tuttavia è oggi più che mai una preziosa testimonianza di radici ancora analogiche: le pellicole Kodak e Fuji utilizzate alternavano 250 e 500 ASA di sensibilità, con una grana e un contrasto pesanti, nel quale gli effetti visivi dell'Industrial Light & Magic si mimetizzavano egregiamente. È difficilissimo toccare con mano oggi la stesso spessore dell'immagine, nell'era della ripresa in digitale. La pura forza visiva, sostenuta ancora dal montaggio di Michael Kahn, finisce persino per soffocare la musica di John Williams (conta più il suono di Richard King, giustamente candidato all'Oscar). Ma ogni virtuosismo usa come perno il cast: a parte Cruise, funziona per pochi minuti il folle Tim Robbins, anche se è la precocissima Dakota Fanning a dominare le inquadrature che Spielberg, cultore dell'infanzia, costruisce compassionevole e paterno intorno al suo sguardo. Chiedendoci di specchiarci insieme a lui in quella paura, che da oltre vent'anni conosciamo tutti sin troppo bene.



  • Giornalista specializzato in audiovisivi
  • Autore di "La stirpe di Topolino"
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