La buca: recensione della commedia con Sergio Castellitto e Rocco Papaleo
Daniele Ciprì rifugge il naturalismo e ritrova l'attore puro.
Non si può abbracciare il cinema di Daniele Ciprì se prima non si è disposti ad abbattere la quarta parete e a prescindere da quella esigenza di naturalismo, sia formale che contenutistico, che permette sì di cibarsi di bocconi di realtà, ma non lascia sul palato un sapore insolito, nuovo, immediatamente riconoscibile.
Per accedere, senza filtri, a un linguaggio espressivo che passa attraverso la citazione e la sua rielaborazione poetica, occorre anche schierarsi non dalla parte della parola, oggi sopravvalutata, ostentata e sempre più ridondante, ma del corpo, che attraverso lo scatenamento e movimenti insistiti ai limiti dell'accelerazione, rimette in primo piano l'attore, che diventa il simbolo di un racconto scevro di ogni sovrastruttura.
Il ricciolo della matita del regista siciliano, che le storie ama non scriverle, ma disegnarle, quasi fossero un cartoon che scivola in una comica, è Sergio Castellitto, che in un personaggio all'apparenza stereotipato (un uomo di legge alla Azzeccagarbugli) riassume il suo elaborato percorso artistico, in particolare la sua esperienza con l'Ettore Scola non tanto de La famiglia quanto di Concorrenza Sleale.
Collocandolo in un luogo immaginario, che potremmo ritrovare nei nostri ricordi dei film interpretati da Charlie Chaplin o scritti da Cesare Zavattini, Ciprì lo allontana dal personaggio di regista di storie di Margaret Mazzantini per ridonagli lo status di incarnazione del mondo interiore di un altro, di primo violino di un concerto scritto da terzi. Il risultato è portentoso e la performance encomiabile.
Accanto a Castellitto, a evocare una musica diversa, suonata da un angelo caduto di prigione che non serba rancore, l'autore di E' stato il figlio mette Rocco Papaleo, che un po' risente del confronto con il collega, rispetto al quale ha un personaggio che evolve di meno.
Tuttavia è nella relazione fra il suo Armando e l'avvocato Oscar, e ancora nella fame che soffre il primo e nel disperato bisogno di soldi del secondo, così come nella descrizione di una crisi economica che bussa alle porte di cartone della città-Cinecittà in cui la storia è ambientata, che troviamo l'unica verità di cui un film ha bisogno: la verità di sentimenti.
Crediamo a La buca, con i suoi caffè un po' parigini un po' torinesi in cui non entra quasi nessuno e con il suo cane di nome Internazionale che si fa metafora della fedeltà, base di ogni amicizia.
Non crediamo, invece, nella facile soluzione del mistero intorno a cui ruotano le indagini dei due protagonisti, che riaprono il caso che ha ingiustamente portato Armando in prigione.
Sembra che in queste ultime battute Ciprì si sia lasciato troppo andare all'incanto dei suoi due clown, dimenticando che i padri della grande commedia all'italiana di cui eredita la lezione prestavano un'attenzione quasi maniacale all'intreccio.
Poco male, seppur imperfetto, La Buca si ritaglia un posto unico nel cinema comico del presente, il che già di per sé è una rivoluzione.
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali