La bottega dei suicidi - la recensione del film d'animazione di Patrice Leconte

19 dicembre 2012
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Patrice Leconte non solo si è cimentato per la prima volta nella regia di un film d’animazione ma ha anche tentato di avvicinare stile e sensibilità di gente come Charles Addams o Tim Burton.

La bottega dei suicidi - la recensione del film d'animazione di Patrice Leconte

Lavorare con lo humor nero, con il dark, con il macabro e il regolarmente bizzarro non è cosa facile. Richiede una sensibilità speciale, una capacità d’equilibrio e di misura con comuni. Detta in altro modo: non sono tutti dei Charles Addams o dei Tim Burton, personaggi capaci di abbracciare la dolcezza e la simpatia che si può nascondere in un una certa lettura del tetro e del sinistro, di regalare uno status di normalità (ma non di normalizzare, anzi) cioè che normale, secondo il pensiero comune, non è.

Non abbiamo citato Addams o Burton solo perché i nomi più immediati o riconoscibili, ma anche perché sono evidentemente stati loro i principali riferimenti di un Patrice Leconte che, ne La bottega dei suicidi, non solo si è cimentato per la prima volta nella regia di un film d’animazione ma ha anche tentato di avvicinare stile e sensibilità del padre di Gomez, Morticia e famiglia da un lato e quello del creatore di Nightmare Before Christmas e de La sposa cadavere dall’altro.
La parabola dei Tuvache - fieri proprietari della bottega del titolo e di provvedere in questo modo alla voglia di morte di depressi e affini, funestati poi dall’arrivo di un terzo figlio che, al contrario di genitori e fratelli, è sempre allegro e ama la vita – viene declinata con uno stile d’animazione che mescola il disegno a mano con quello digitale, ammiccando ai barocchismi grotteschi di Chomet e a certi cartoon televisivi realizzati in flash, con la poco gradita (onni)presenza di canzoni e canzoncine ad accompagnare la narrazione.
Ma se, canzoni a parte, l’impianto formale non è malriuscito, pur non avendo alcun guizzo particolare, è la goffaggine dimostrata da Leconte a gestire i toni del racconto a penalizzare tutta l’operazione.

Non sappiamo quanta responsabilità abbia in questo il materiale originale da cui il regista francese è partito (il romanzo “Il negozio dei sucidi” di Jean Teulé): certo è che il suo film è tarato da un’oscillazione progressiva e prevedibile tra aspetti un po’ morbosamente e mai del tutto ironicamente macabri ad un buonismo di fondo naif e stucchevole. Perché, forse, quel che La bottega dei suicidi si sforza troppo di essere è una sorta di apologo morale pronto a stigmatizzare secondo un facile schematismo il grigiore e la tristezza di un mondo cupo e pronto a lucrare sul dolore altrui, e a esaltare con faciloneria un po’ smielata il cuorcontentismo che basta a sé stesso e fa tanto spirito natalizio.
E, soprattutto, normalizza e priva di ogni carattere positivamente eversivo i personaggi e la storia che lo compongono.


 

 



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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