La bella gente - recensione del film di Ivano De Matteo
Una riflessione non banale su chi siamo e i tempi in cui viviamo nel film che esce 6 anni dopo la sua realizzazione.
Ci sono modi diversi di affrontare la sofferenza altrui: si può guardare da un'altra parte, chiudersi a riccio nel proprio privato e ignorarla se non colpevolizzarla oppure andarle incontro e provare a cambiare le cose, seguendo un impulso altruistico che molti ritengono connaturato nell'essere umano, nonostante la nostra esperienza quotidiana sembri dimostrare il contrario. E ci sono persone illuminate, colte e preparate, che dell'assistenza ai sofferenti e ai bisognosi hanno fatto una professione.
Una di queste è Susanna, la psicologa protagonista di La bella gente (film fino a oggi fantasma di Ivano De Matteo, secondo dei suoi 5 lungometraggi, che esce sei anni dopo la sua realizzazione), che un giorno, sulla via della casa di campagna dove passa le vacanze col marito, scorge sul ciglio della strada una giovane prostituta seduta su una seggiolina. Qualche giorno dopo la rivede, sempre passando, maltrattata dal suo protettore. L’immagine la colpisce al punto da non riuscire a togliersela dalla mente e col suo carattere forte e impulsivo non ha difficoltà a convincere l’accomodante marito a rapire la spaventatissima ragazza ucraina e a portarla a vivere con loro. Ma se come al solito le intenzioni sono buone, gli esiti lo sono assai meno e la scelta dell’accoglienza finirà per portare a galla tutte le ipocrisie, i pregiudizi e le paure che questa bella gente nemmeno sospettava di avere. E come sempre accade, una volta espulso il corpo estraneo, nel nucleo famigliare tornerà tutto come prima, almeno in apparenza.
E’ un bel film ed è anche di grande attualità quello di De Matteo e della sua sensibile sceneggiatrice Valentina Ferlan, che esce in un momento storico che sembra avviato a diventare l’era dell’esclusione. Estremizzando e sintetizzando il tema dell’accoglienza nella figura simbolo di una giovanissima prostituta ucraina, gli autori evitano le trappole del cinema a tema e giocano abilmente, con una costruzione rigorosa e avvincente della storia, sulle aspettative dello spettatore, che soltanto alla fine si rende conto che non si tratta del solito gruppo di famiglia borghese in un interno ma che si parla di noi, di tutti noi. E’ vero che Susanna, il marito Alfredo e il figlio Giulio sono di estrazione sociale alto-borghese, ma appartengono alla categoria dei buoni, di quelli che si impegnano da sempre, della gente democratica e vagamente di sinistra che fa sempre la cosa giusta, sicura di non aver niente da nascondere. Sono quelli che hanno amici con più soldi di loro, cafoni e razzisti, ma li tollerano con benevolenza.
Quando però la presenza della giovane e bellissima Nadia disturba gli equilibri famigliari, Susanna inizia a sospettare di lei, proprio per quello da cui l’amica “stronza”, all’inizio, l’aveva messa in guardia. La ragazza infatti non si accontenta di essere stata salvata, non si limita a stare “al suo posto” silenziosa e riconoscente, ma addirittura pretende di partecipare al benessere altrui, vorrebbe perfino essere amata dal figlio unico già fidanzato con una ricca pariolina e chissà, forse anche sedurre il marito buono ma coglione di chi le ha aperto la porta di casa, che dai tempi del liceo ama e subisce una donna volitiva e dispotica.
Le brave persone, la bella gente generosa, trattano la ragazza né più né meno che come farebbe con un cagnolino ferito: finché è vittima fa pena, ma quando riprende forza, fiducia e speranza rompe le scatole perché non si può tenerlo chiuso in casa. E allora che si fa? Lo si abbandona sulla strada, senza curarsi del suo futuro. In questo caso, visto che è una persona, sgravandosi la coscienza con un mazzo di banconote.
La bella gente ci interroga proprio sui limiti dell’accoglienza: se una sola persona in difficoltà ci fa pena ma finisce per farci paura, che effetto possono avere, sul senso democratico e cristiano dei "buoni", le centinaia di migliaia di disperati che arrivano ogni giorno? E' un film che affronta anche in modo intelligente il tema del confronto (un dialogo tra sordi) tra persone che in fondo hanno tutto e sono ricche di sovrastrutture, e gente semplice e ingenua che non ha niente e che crede a tutto quello che diciamo. Alla fine è Nadia, due volte vittima e trattata come un oggetto da chi diceva di volerla aiutare, quella per cui facciamo il tifo e nel finale aperto del film possiamo sperarla salva, anche se la temiamo perduta.
Di Matteo gestisce con perfetto equilibrio tra le parti drammatiche e i momenti divertenti una sceneggiatura che sa dove vuole andare a parare e un cast di attori molto affiatato e mai stonato, dalla famiglia dei protagonisti Monica Guerritore/Antonio Catania agli amici Iaia Forte e Giorgio Gobbi, dal figlio ragazzino e seduttore di Elio Germano a Victoria Larchenko, ragazza dai grandi occhi che struccata dimostra davvero 17 anni, fino all’odiosa fidanzata pariolina di Myriam Catania.
Alla fine, più dei razzisti dichiarati, chi veramente fa rabbia e pena insieme sono proprio quelli bravi, impegnati, generosi, che vogliono fare il bene senza però mettersi mai al livello del beneficato, calando dall’altro una compassione di facciata che si sfalda non appena la minaccia sconfina dai limiti che le sono stati imposti. Siamo sicuri che anche noi, che ci sentiamo lontani da razzismo, volgarità e ignoranza, sapremmo (come) accogliere chi ha bisogno di aiuto? Quando un film riesce a far riflettere su queste cose raccontando bene una storia, l'autore è sicuramente riuscito nel suo intento.
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- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità