L'Infinito, la recensione: la vanità, la malinconia, la sincerità di una vita (e del cinema)
Scambio di ruoli tra Paolo Sorrentino e Umberto Contarello, con lo sceneggiatore che scrive sì, ma esordisce anche alla regia a 66 anni. Ma non chiamatelo aspirante Sorrentino in minore, perché non lo è affatto. La recensione di L'Infinito di Federico Gironi.
Umberto, per gli amici Umbe (ma gli amici non sembran tanti), è uno sceneggiatore. Un premio Oscar alle spalle, di fronte l’ignoto, il fantasma del precipizio. Si definisce avvilito, ma è anche uno che ha condotto una vita sregolata, vacua, eccentrica; è bugiardo, presuntuoso, inaffidabile, e anche vanesio, ma si pente, dice. Umberto beve gin tonic, oggi lo bevono tutti, ma almeno sa che si beve meglio in un tumbler basso; quando era approdato a Roma la girava con un Califfone, che dice essere il più brutto motorino della storia del motociclo (ma sbaglia, quello era l’Atala Idea); odia il verbo funzionare quando si tratta di qualcosa che si scrive, preferendo giustamente delegare ai rubinetti, e ama le scene che non servono a niente. Ha una figlia adolescente che lo evita, forse un figlio più grande, un maggiordomo che non paga da mesi e alcune ex, ma è un uomo drammaticamente solo, e terrorizzato dall’idea di esserlo. Per il caffè a casa usa sempre il servizio buono, a costo di rovinarlo, e non vuole le tazzine della Conad, perché finché può vuole vivere nel lusso. Umberto si incanta a guardare le suorine che lavano i vetri, frequenta un'Harry's Bar decaduto e decandente come lui, ha uno stent ma non ha paura di morire, semmai di sopravvivere.
Umberto è ovviamente Umberto Contarello, personaggio romanzesco ma anche autobiografico, in equilibrio carrieriano tra reinvenzione e cronaca. L’infinito non è quello di Leopardi, neanche un po’, o forse solo appena appena. L’infinito è il titolo trovato da Paolo Sorrentino, che con Contarello ha scritto, lasciando a lui la regia, invertendo così i ruoli, la tattica ma forse non la strategia. L’infinito, infatti, respira di un respiro familiarissimo a chi conosce i due e i film che hanno girato assieme, ma è tutt’altro che un aspirante Sorrentino in minore. L’infinito, secondo il suo autore, è l’infinitezza delle possibilità, e quindi pure di un happy ending, di un riscatto, di una ripresa; ma è anche quella cosa che, come racconta il suo simbolo, quell’otto (rovesciato) che viene citato prima a parole e poi con le immagini nel film, descrive anche un girare a vuoto, eterno, continuo, forse sfiancante. Come la vita di Umberto, protagonista del film.
C’è una perfetta coincidenza, e non poteva essere altrimenti, tra il film e il suo protagonista: L’infinito ha la stessa cura, ricercatezza e eleganza nell’immagine (fotografia di Daria D’Antonio, bravissima) che Umberto ha per la parola, la ostenta con sprezzatura nello stesso identico modo. Come Umberto, L’infinito è un film erratico, che si bea della sua decadentismo, che ama la digressione e il gusto per il gesto fine a sé stesso, che non è esente - anzi - da una ricca dose di narcisismo ma che usa (quasi) altrettanta (auto)ironia, nel tentativo riuscito di parlare di cose serie e magari gravi, ma senza pesantezza. Con la capacità, come si dice a un certo punto, di togliere peso al mondo.
Come Umberto, appunto. Personaggio - o persona, poco importa - che se guardato nel modo giusto, senza farsi abbagliare dalla tendenza a essere esteta a tutti i costi, senza prendere troppo sul serio quella vanità un po’ infantile, quella tendenza all’autocompiacimento così volutamente ostentata, è carico di senso di malinconia che si sa fare commovente nella pur mascherata (ma nemmeno troppo) esposizione della fragilità, del dolore e della paura che porta con sé: della solitudine, della morte (anche del cinema), della vita. Basti pensare all’Umberto padre, tra le frasche o dietro una porta, o all’Umberto figlio, che ha bisogno di grandi bugie e monologhi dolorosi e nudi di fronte a una tomba.
Il fatto che L’infinito porti con sé un’evidente matrice sorrentiniana (e quindi, in qualche modo, anche inevitabilmente e anticipatamente contarelliana), che sia così indulgente nei confronti di sé stesso, e così mollemente innamorato di sé non sono limiti, ma tratti di personalità. Quella personalità che passa anche dalle parole e dalle immagini che vengono messe sullo schermo, per toni e ritmi così singolari e compiaciuti di esserlo, e che è quella personalità - una delle possibili, infinite personalità - che il cinema italiano troppo spesso ignora, o millanta, o allestisce solo di facciata. Una personalità forte anche e soprattutto quando sembra narcisiticamente dimessa. Forte comunque, e quindi magari non gradita a tutti, ma che lascia un segno. E che qui, a me, ora, piace molto.
- Critico e giornalista cinematografico
- Programmatore di festival