L'Accabadora - la recensione del film con Donatella Finocchiaro
Enrico Pau ci porta in una Sardegna sospesa tra riti arcaici e un futuro moderno ed incerto, col ritratto di una figura femminile quasi mitologica.
Siamo in piena seconda guerra mondiale quando Annetta, una donna vestita di nero che si porta dietro un'aura di tristezza e di mistero, arriva a Cagliari dalla campagna, per prendersi cura della casa di una ricca famiglia. Lì ritrova la nipote Tecla in una casa di tolleranza, conosce l'angoscia dei bombardamenti ed è perseguitata del suo passato. Solo l'incontro con un giovane medico straniero sembra farle ritrovare una possibile pace.
Acabar in spagnolo significa finire e la figura della “femmina accabadora”, presente nella cultura popolare sarda, è un po' quella di un'antipuerpera che facilita la fine della vita, il ritorno nell'ignoto dal quale siamo arrivati, praticando un'eutanasia richiesta dai malati incurabili o dai loro familiari. È l'ultima madre, che accompagna nel trapasso togliendo ai figli il soffio vitale con l'uso di un cuscino o di un fazzoletto, o più violentemente con un martello di legno, e che per la sua pietosa missione non riceve alcun compenso. Un personaggio molto affascinante, di cui ci sono testimonianze almeno fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, nonostante alcuni antropologi non le ritengano attendibili.
Si tratta dunque di una figura che vive tra mito e superstizione, in quella terra di mezzo dove verità e leggenda si confondono, e che ben si presta a storie di confine che raccontino il difficile passaggio tra antico e modernità. Non a caso anche la scrittrice Michela Murgia nel 2009 l'ha messa al centro del suo romanzo premio Campiello che - è bene chiarire - non ha niente a che vedere col (terzo) film di Enrico Pau, che arriva sullo schermo con un po' di ritardo rispetto alla sua realizzazione.
Peccato, perché l'uscita tardo-primaverile non giova a un film dalle indubbie qualità, che non merita di perdersi tra le strette maglie della distribuzione italiana o di essere visto, come ultimamente capita a molti prodotti “regionali”, solo nelle zone in cui è ambientato. Tanto più che in questo caso si tratta di una singolare coproduzione con l'Irlanda, a cui il film deve il protagonista maschile, Barry Ward. Tra gli autori del soggetto c'è anche un sardo illustre come Igor Tuveri, in arte Igort, maestro del graphic novel a sfondo politico e sociale, che in qualità di sceneggiatore ha già firmato il bel Last Summer, con cui L'accabadora, sia pure in modo diverso, condivide le atmosfere rarefatte e il racconto pieno di silenzi.
Sono soprattutto le immagini a parlare in questo film: le macerie, le strade, le facce. E soprattutto il volto dolente di una bella donna di nemmeno quarant'anni, interpretata con trattenuta e passionale intensità da Donatella Finocchiaro, col peso di una tradizione ereditata e non voluta, che l'ha portata ad una vita vicina al mondo notturno della morte. Per questo la nipote si è allontanata da lei e i fantasmi a cui ha dato il pietoso conforto del suo abbraccio la perseguitano. L'accabadora racconta attraverso una figura simbolica un paese e un'epoca di passaggio, il contrasto tra fede - anche nella sua variante superstiziosa - e scienza, la pietà umana verso la sofferenza individuale, a confronto con la disumanità delle stragi di civili a suon di bombe durante la guerra. Ed è anche la storia della ricerca di un'anima che non si vede, che forse nemmeno esiste, ma che ha un peso reale sulla coscienza.
Anche se alcuni passaggi narrativi appaiono fin troppo scarnificati e gli altri personaggi femminili offrono poco materiale alle pur brave Sara Serraiocco e Carolina Crescentini, la suggestione di un film così rigoroso e denso di metafore arriva comunque intatta allo spettatore, chiamato a confrontarsi con la storia e le tradizioni di un paese, il nostro, fatto di mille anime ancora non riconciliate tra di loro.
- Saggista traduttrice e critico cinematografico
- Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità