Joy: recensione del film con Jennifer Lawrence, Robert de Niro e Bradley Cooper
David O. Russell parte in maniera sublime ma si perde strada facendo.
I peggiori e implacabili detrattori di David O. Russell lo accusano di copiare il cinema di Martin Scorsese, anzi di imitarlo alla perfezione, e questo spiegherebbe sia le molteplici candidature all’Oscar di American Hustle che la sua totale esclusione dalla lista dei vincitori.
Noi che amiamo il suo grottesco ottimismo, le sue famiglie strampalate e il suo gusto per le kitchen table stories, intravediamo invece dietro il suo forse calcolato miscuglio di freschezza indie e attenzione a non uscire dalla confort zone del pubblico mainstream un cuore che pulsa, una partecipazione emotiva alle umane vicende, un’innata e a volte insana curiosità per quello che la gente fa, dice, guarda alla televisione, mangia, indossa e crudelmente o amabilmente si rinfaccia.
I film corali di questo regista che parla agli attori anche mentre recitano sul set ci hanno dato tanto: un Robert De Niro autoironico ma non gigione, una Jennifer Lawrence da Oscar, un’ottima e curatissima fotografia, memorabili scene in cui personaggi che mutano repentinamente registro si parlano addosso, producendo un irresistibile caos comico o al limite agrodolce.
Detto questo, come già fatto per Solo Dio perdona dell’amato Nicholas Winding Refn, dobbiamo ammettere che stavolta O.Russell ha fatto un passo falso, che Joy non è esattamente il film che ci aspettavamo e che, nonostante fabulous Jennifer e il suoi riccioli biondi che si muovono contro l‘azzurro di un cielo rischiarato dalla neve artificiale, la vera storia di Joy Mangano e del suo rivoluzionario mocho ci ha lasciato piuttosto freddi.
Forse la colpa è di una prima mezz’ora da manuale in cui il regista ritrae un "gruppo di famiglia in un Inferno" affidandosi alla verve tutta femminile di Virginia Madsen e Diane Ladd, a un ritmo febbricitante e a una presa in giro iconoclasta e divertentissima delle desperate housewives anni ’90. E’ il David O. Russell che conosciamo, il migliore, il ragazzo che - come scrive qualcuno - deve aver avuto degli orribili Giorni del Ringraziamento, anche se si definisce un cultore della famiglia, sia essa reale o formata da compagni di lavoro. E in effetti proprio i parenti serpenti di Joy, orribili nel loro opportunismo, meschini e caustici, mantengono comunque discreto il livello del film quasi fino alla fine, ammantandolo di un’impercettibile aura sinistra che stride felicemente con la "gioia" contenuta sia nel titolo che fra le pieghe del racconto.
Anche l’incursione in uno studio televisivo dove si decide il destino di un prodotto in vendita e di colui che lo ha ideato è un momento fulgido, oltre che una mirabile lezione di regia e una puntuale fotografia delle spietate logiche del marketing.
Ma per il resto la giostra di O. Russell gira troppo velocemente, facendo rovinosamente cadere a terra i bambini aggrappati alle criniere dei suoi cavalli. E’ come se, una volta animati i personaggi, il regista smettesse di colpo di prendersene cura, proteggerli, di coltivarne l’umanità e l’unicità (come aveva fatto per Tiffany e Pat ne Il lato positivo), e di magnificarli con dialoghi benedetti dal Dio delle sceneggiature.
Allo stesso modo di un burattinaio stanco, il regista taglia poi inspiegabilmente i fili delle sue marionette meno belle per improvvisarsi compiaciuto cantore di gesta. La sua attenzione viene allora catturata quasi solo dall’eroina del miracle mop, che finalmente "tira fuori le palle", si veste di pelle nera e rimette al suo posto un cowboy mezza tacca davanti a una finestra che sembra uscita da un quadro di Hopper.
Già perché l’uomo di cinema dell’iperstilizzazione a un certo punto vuole andare indietro nel tempo con l’estetica, scomodando perfino Orson Welles e il caro Frank Capra... Che pasticcio! Un pasticcio strabordante di energia, non c’è dubbio, in cui però avremmo voluto più Bradley Cooper e meno biopic, più Isabella Rossellini vedova tutta d’un pezzo e meno Bob De Niro che fa le smorfie, e soprattutto un minimo di tensione quando la Mangano si reca nel covo dei suoi nemici.
Scelte tematiche e narrative a parte, la nostra perplessità più grande riguarda tuttavia la sincerità di David O. Russell: siamo proprio sicuri che gli interessi così tanto difendere a spada tratta il diritto al sogno americano delle donne d’ingegno? Le sue simpatie vanno davvero alla Cenerentola dalla scopa che si mette in lavatrice? Oppure gli importa più delle Genoveffa e Anastasia di turno perché solitamente i cattivi sono più cool?
La scelta di narrare una fiaba in cui la principessa non trova la felicità grazie al Principe Azzurro lascerebbe pensare che il nostro sia in buona fede, e che rivolga al femminile uno sguardo aperto e moderno. E quindi, se la celebrazione delle wonder women dell’invenzione rimane in sordina, magari dipende confusione di cui sopra.
Non ne siamo sicuri… comunque sia, la verità è che in Joy il mocho non riesce mai a diventare "mojo" (magia).
- Giornalista specializzata in interviste
- Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali