IT: la recensione del film di Andres Muschietti tratto dall'omonimo romanzo di Stephen King

13 ottobre 2017
3.5 di 5
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Un adattamento che rispetta il testo kinghiano tradendolo dove necessario, ma lasciandone l'anima intatta.

IT: la recensione del film di Andres Muschietti tratto dall'omonimo romanzo di Stephen King

Ho letto per la prima volta "It" molti anni fa. Credo nei primi anni Novanta. Da qualche tempo lo sto rileggendo in inglese, lentamente, distratto da altri libri, lavori, impegni, ma tornando sempre a quelle pagine: che sono da divorare o da centellinare.
E rileggendolo mi è apparso evidente come sia un romanzo così denso, così stratificato, così evocativo e fulminante nella scrittura da essere, sostanzialmente, inadattabile.
Come adattare, tanto per fare un esempio, quella parte meravigliosa che è la costruzione della diga nei Barrens, e quel diventare amici di Bill e Eddie e Ben senza nemmeno accorgersene, facendo cose, sancito poi da una frase quasi appoggiata lì da Stephen King con noncuranza: "A silence fell amid the three of them. It was not an entirely uncomfortable silence. In it they became friends."?

Ecco, quella parte lì del libro di King non c'è, nel film di Andy Muschietti. Come non ce ne sono altre: e non solo, come sapete tutti, la linea temporale con i Perdenti adulti, ma tante di quelle parti solo apparentemente interlocutorie che riempiono le oltre 1200 pagine del romanzo.
Quelle parti non ci sono, e va bene così. Ce ne sono altre, e va bene allo stesso modo.
Va bene così perché non sta scritto da nessuna parte che per adattare un romanzo, perfino o soprattutto un romanzo come "It", si debba usare la carta carbone, o ricalcare tutto e in tutto il testo scritto. Bravi allora gli sceneggiatori, e bravo Muschietti, che non solo hanno tradito, ma han rimescolato (lo storico di Derry diventa Ben, non Mike), e perfino inventato qualcosa di sana pianta. Lasciando però - ed è questa la cosa che conta - il più possibile intatto lo spirito del libro, le sue atmosfere e i suoi temi, sia per quanto riguarda la parte più esplicitamente horror sia per tutto il lavoro metaforico che ci sta dietro.

In fondo, tra le tante cose, "It" è anche e forse prima di tutto il racconto di un gruppetto di ragazzini a cavallo tra l'infanzia e l'età adulta che si trovano di fronte a quella cosa indefinita ("it", appunto) che è il male del mondo, la sua rapacità, la sua pervasività, la sua potenza. Qualcosa che a lungo hanno potuto ignorare ma che ora, che stan diventando grandi, devono affrontare e metabolizzare in qualche modo. È un romanzo di formazione, a tutti gli effetti
Questo, l'It di Muschietti, che pure è un horror e basta o quasi, un film che sembra quasi voler mettere in secondo piano tutte le questioni che non siano quelle del genere puro, lo racconta bene. Tra le righe, in maniera meno estesa e profonda di quanto non faccia King, ma lo fa. E non lo fa nemmeno male.
Perché rispetta (e rispecchia) la natura di quei personaggi, la loro età, il loro sguardo (come quanto tutti i maschi si trovano a fissare attoniti - quasi più che davati a It - una Beverly che prende il sole in reggiseno e mutandine, dopo il bagno alla Cava). Il loro condividere costante, spesso obbligato, sempre voluto.

Certo, It è un film destinato a generazioni che non hanno più molto a che vedere con quelle dei loro coetanei della fine degli anni Ottanta (dove il film di Muschietti è ambientato), figuriamoci con quelli di fine anni Cinquanta (che invece è il tempo raccontato da King), ma certe cose sono universali, e rimangono sempre le stesse.
Per tutto il resto, c'è la velocità (anche eccessiva, vagamente frenetica, tanto che il racconto appare quasi frettoloso a dispetto delle due ore e quindici di durata), ci sono gli effetti speciali, c'è tutto quello che tiene attaccati allo schermo i ragazzini (e non solo) di oggi, che l'horror lo hanno conosciuto con James Wan e con i film della Blumhouse.

C'è la paura, sì, abbastanza, mica poca: perché alcune situazioni - mescolate a tanti inevitabili jump scares - sono abbastanza inquietanti, non solo nell'immediato, e comunque sempre ben congegnate.
Perché non si tratta mai di solo orrore. C'è sempre quel qualcosa di più, legato all'essere un ragazzino, all'essere solo o parte di un gruppo, alla costruzione di una nostalgia che - grazie al cielo, e a Muschietti - non è mai vintage o modernariato, ma è fatta di sputi, parolacce, insulti, abbracci, risate, confessioni, occhi che si guardano, mani che si stringono. Col sangue, o senza.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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